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Eritrea, salute pubblica e privata, nessun pericolo per i malati

Marilena Dolce
02/07/19
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Asmara, Ospedale Orotta, la vice ministra Del Re con il ministro della Sanità, Amina Nurhussen

Eritrea, salute pubblica e privata. Nessun pericolo per i malati. In Eritrea, almeno per l’estero, si è aperta una questione sulla salute pubblica e privata. Una disputa con al centro l’assistenza cattolica ai malati. Una questione posta lo scorso giugno dal report del “relatore Speciale” alle Nazioni Unite, sulla “situazione dei diritti umani in Eritrea”. Nel rapporto si legge che l’attività della Chiesa cattolica, in ambito sanitario, è stata limitata. Una situazione che metterebbe a rischio la vita di molti malati.

Sulla questione di principio l’Eritrea ha risposto all’accusa ricordando di aver fondato il proprio paese sulla laicità. Non avere una religione di Stato perciò non significa vietare la religione. Al contrario, vuol dire che ognuno potrà praticare liberamente il proprio credo, nel rispetto di quello altrui e delle leggi dello Stato.

In Eritrea, paese un po’ più piccolo dell’Italia, la maggior parte delle persone, dal punto di vista religioso, si divide tra cristiano-copti e musulmani. Vi sono poi minoranze cattoliche e protestanti, retaggio del passato missionario.

La tolleranza religiosa non è solo teoria. In ogni città ci sono, fianco a fianco, chiese cattoliche, copte, moschee.

Nella capitale Asmara c’è anche la sinagoga, frequentata ormai solo da due famiglie.

Nel 1995, subito dopo l’indipendenza (1991 de facto, 1993 de iure) il governo emana una legge per separare Chiesa e Stato. Inoltre in essa vi sono le normative per regolare il modo in cui le istituzioni religiose possono operare nel sociale. Non è una limitazione dell’autonomia religiosa. Piuttosto un dividere gli ambiti, cosa fa lo Stato e cosa la Chiesa.

Per quanto riguarda scuola e ospedali non possono esistere strutture religiose che seguono criteri diversi da quelli statali.

Recentemente una direttiva del ministero della Sanità ha richiamato la Chiesa cattolica, perché si attenga alla legge 73/1995. Una richiesta, ha spiegato Asmara nei recenti comunicati, non vessatoria. Il senso è quello di non creare disparità tra le diverse istituzioni religiose, con privilegi per chi riceve più fondi privati. Il richiamo del Ministro alle strutture sanitarie cattoliche non ha avuto ricadute concrete sulla popolazione.

Per intendersi, in questi giorni per le strade d’Eritrea non ci sono malati in cerca di cure. Né monatti per raccoglierne i resti.

L’assistenza sanitaria all’interno del paese è come sempre. Secondo i dati, l’82% della popolazione trova una struttura ospedaliera nel raggio di 10 chilometri dalla propria abitazione. Le organizzazioni internazionali presenti nel Paese, Oms e Unicef, in questi anni si sono espresse in modo positivo sull’impegno dell’Eritrea in campo sanitario.

Molto è stato fatto. In linea con gli Obiettivi del Millennio, le gravidanze, adesso, sono più sicure. Così i parti e il periodo neonatale. Inoltre molte malattie, pensiamo alla poliomielite, grazie alla diffusione capillare dei vaccini, non sono più endemiche.

La sanità pubblica c’è. Questo però non esclude le organizzazioni non governative. Quello che deve esserci è una comunione di obiettivi. Ciò per evitare forme di “aiuto” che, come è stato più volte detto, non aiutano proprio niente. Anzi diventano un freno allo sviluppo e al raggiungimento degli obiettivi.

Del tutto incomprensibile, in questa querelle sanità pubblica o religiosa, è però il paragone tra l’attuale governo eritreo e la giunta militare etiopica (Derg) di Menghistu Heile Mariam.

Nella lettera indirizzata al ministro della Sanità i vescovi cattolici scrivono che “è un fatto storico che nel 1982, il Derg, partendo da concetti e principi dichiaratamente antireligiosi, e spinto da immotivati sentimenti di odio e antagonismo, requisì forzatamente…varie istituzioni sociali gestite dalla Chiesa cattolica”. “Gli archivi”, continua la lettera dei vescovi scritta il 13 giugno scorso,”testimoniano le reiterate richieste sottoposte dopo l’indipendenza perché venissero restituite alla Chiesa le istituzioni nazionalizzate dal Derg”.

Come i vescovi sanno, con l’arrivo al potere del Derg, per l’Eritrea la situazione diventa pesantissima. Di fatto invivibile.

Le persone abbandonano il paese. Oppure scelgono la clandestinità unendosi a chi combatte per un libero Stato.

Barentu, Keren, Segheneity, oltre a essere i luoghi storici delle missioni cattoliche, diventano i centri nascosti della resistenza eritrea. Moltissimi combattenti non vedranno la nascita della patria. Lasciando ai fratelli l’eredità di costruirla.

Se si parla con gli eritrei, per loro il Derg è stato il Male.

Molte delle cose che oggi mancano nel Paese, sono state portate via proprio dalle loro sopraffazioni. Il Derg non ha solo nazionalizzato i beni della Chiesa cattolica. Ha chiuso scuole, bruciato case, nazionalizzato industrie. Tolto all’Eritrea tutto ciò che serviva per vivere e lavorare.

Passeranno moltissimi anni, con la perdita di tante vite, perché il paese, sopraffatto dalla violenza del Derg, possa tornare a sperare. Ecco perché paragonare il governo dell’Eritrea al Derg è un’illazione priva di basi storiche.

Tra pochi giorni è un anno dalla data dell’8 luglio. Quella della firma ad Asmara tra il premier Abiy Ahmed e il presidente Isaias Afwerki. Un accordo raggiunto che ha messo fine al lungo strascico della guerra del 1998-2000.

Una pace per la quale le persone hanno festeggiato e gioito. Una pace che ha sospeso la guerra fredda che penalizzava, soprattutto, lo Stato più piccolo tra i due.

Certo in un anno non si sono azzerati tutti i problemi.

Molti ne ha al suo interno l’Etiopia. Come ha dimostrato il tentativo di colpo di Stato di qualche settimana fa. Così come ne ha l’Eritrea che, comunque, in uno scenario non certo semplice, sta lavorando perché nei paesi vicini rimanga una sufficiente stabilità.

Le cose da fare sono molte. Senza la pace però non se ne faceva nessuna.

Comunque, per conoscere un Paese, e l’Eritrea non fa eccezione, bisogna, se è distante, prendere un aereo e andarci.

Non basta leggere le “garbate lettere” dei vescovi cattolici, oppure gli ultimi rapporti internazionali. Per scriverne è necessario vedere con i propri occhi. Forse non più spostandosi a dorso di mulo per chilometri, come faceva Curzio Malaparte, però almeno in taxi, dall’aeroporto della capitale al centro città.

Mesi fa in Eritrea, dopo anni di quasi assenza italiana, sono andati il premier Giuseppe Conte e la vice ministra agli Esteri Emanuela Del Re.

“Ho voluto testimoniare al Presidente e all’intero popolo eritreo” ha detto Conte, “un segnale di attenzione e di soddisfazione per la svolta raggiunta nell’ambito del processo di pacificazione con l’Etiopia dopo un conflitto ventennale che ha causato decine di migliaia di vittime”.

Mentre la vice ministra Del Re, nel suo viaggio avvenuto poco dopo, ha detto, riferendosi all’Eritrea, che il paese l’ha conquistata, che avrebbe voluto tornarci con i figli.

Nella sua visita il vice Ministro è stata in ospedali, scuole, anche quella italiana. Ha incontrato religiosi, parlato con i politici e con il Presidente Isaias Afwerki.

Davanti a una platea composta da imprenditori italiani e politici eritrei, la Del Re ha detto di immaginare, per Itala ed Eritrea “una crescita comune”. In questo senso ha aggiunto, “penso che lo sviluppo dell’Eritrea possa essere condiviso, con obiettivi scelti insieme”. Sottolineando che “insieme” è la parola giusta per un futuro di sviluppo, dopo il “passo storico” della pace con l’Etiopia.

Per taluni, che il paese l’hanno visto solo in cartolina, questa è una “bolsa e deprimente retorica”. Per altri il modo per portare competenze e capacità italiane che possono essere utili alla crescita del Paese. “Insieme”, appunto. Ci sia passata la retorica.

In relazione alle critiche ricevute dalla stampa italiana per la chiusura delle strutture ambulatoriali cattoliche, l’Ambasciata eritrea di Roma ha risposto con due comunicati.

Nel primo cita, spiegandola, la legge 73/1995 alla base del laicismo del proprio Paese. Nel secondo, invece, ricorda che il sistema sanitario eritreo è gratuito e accessibile a tutti.

Dice inoltre che “chi conosce l’Eritrea perché ci vive o vi ha vissuto sa che non è l’inferno che si vuole descrivere”.

Il consiglio è quello ripetuto più volte dagli eritrei, vieni e vedi, come and see. Un consiglio appropriato in questo caso. Visto che i vescovi sanno che sono le parole che l’apostolo Filippo rivolge a chi non crede che a Nazareth ci sia il Messia.

Marilena Dolce @EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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