Tra Asmara e Bari, riflessioni di una donna eritrea sulla pace tra Eritrea ed Etiopia
Tra Asmara e Bari, riflessioni di una donna eritrea sulla pace tra Eritrea ed Etiopia.
Cosa pensano del percorso di pace gli eritrei, lo racconta Lem Lem Gualghejeret, una donna eritrea che vive a Bari dal 1981, quando aveva quattordici anni.
9 luglio 2018, una data importante per Eritrea ed Etiopia. Ad Asmara il presidente Isaias Afwerki e il primo ministro Abiy Ahmed firmano la pace. Una pace che la gente dei due paesi aspetta da diciotto anni.
Al termine della lotta per l’indipendenza (1991) Eritrea ed Etiopia si scontrano ancora (1998-2000). Formalmente a causa di un territorio rivendicato, con motivazioni diverse, da entrambi i paesi. Il conflitto termina nel 2000. Nel 2002 la commissione internazionale incaricata di stabilire la pace, afferma in modo “definitivo e vincolante” che quell’area disputata è eritrea. L’Etiopia, guidata da Meles Zenawi sostenuto dall’America, non accetta il verdetto. E le sue truppe rimangono sul confine. Fino alla scorsa settimana.
Questa situazione, definita di “non pace non guerra”, ha cambiato la vita di almeno due generazioni di uomini e donne eritree ed etiopiche. Persone che hanno dovuto fare i conti con la frattura di famiglie, commerci, affetti. Inimmaginabile perciò la gioia di ritrovarsi, parlarsi nuovamente per telefono, poter attraversar le frontiere, acquistare un biglietto per un volo di linea verso Asmara o anche, semplicemente, fare scalo ad Addis Abeba, arrivando dall’estero.
Quella di luglio, però, non è stata l’unica visita ad Asmara del premier Abiy. Vi è tornato anche a settembre, per un incontro a tre, Eritrea, Etiopia, Somalia. Per stipulare con il presidente eritreo Isaias Afwerki, e con il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed, una Joint Declatarion. Un patto che prevede la reciproca cooperazione a vari livelli. Innanzitutto per rafforzare i legami politici, economici, sociali e culturali. Quindi per avviare l’impegno di lavorare per la pace e la sicurezza nella regione. In seguito a questi accordi i ministri degli esteri dei tre paesi sono andati a Gibuti. Missione dall’esito positivo, con il raggiungimento della distensione nei rapporti con l’Eritrea.
Mesi febbrili da luglio a settembre, che eritrei ed etiopici hanno seguito in dirette televisive, ma anche andando ad Asmara.
La capitale eritrea è stata, quest’estate più di altre, la meta del viaggio di molti eritrei della diaspora.
Cosa pensano del percorso di pace gli eritrei, lo racconta Lem Lem Gualghejeret, una donna eritrea che vive a Bari dal 1981, quando aveva quattordici anni.
Mia mamma, dice, lavorava già in Italia. Così io e mia sorella l’abbiamo raggiunta, per un ricongiungimento familiare.
Dal 1975 al 1980 sono stati anni bruttissimi in Eritrea (ndr, l’Eritrea era parte dell’Etiopia, mentre al potere c’era il Derg di Menghistu Heile Mariam). La gente fuggiva. Un esodo. Solo in Sudan c’erano un milione di rifugiati.
Allora l’Italia non riconosceva agli eritrei lo status di rifugiati, non avevano diritto alla “protezione internazionale”.
Per tanti eritrei, anche allora, il viaggio non finiva bene. Altri scappavano in Sudan e poi da lì verso l’Italia, che però era, già allora, paese di transito. Le mete preferite erano altri paesi europei, oppure l’America e il Canada.
Vi aspettavate la pace?
No. Anche se i disordini, lo stato di emergenza e le dimissioni dell’ex premier Heilemariam Desalegn, facevano immaginare che qualcosa dovesse cambiare.
Come vi sembra il nuovo premier Abiy Ahmed?
bambini, donne anziane, tutti volevano vederlo. Ho ripreso l’arrivo con il telefonino…
Quando è arrivato ad Asmara, l’ho visto per pochi secondi, mentre passava in macchina. È un uomo giovane, sembra molto positivo.
Per il suo arrivo le strade erano pienissime di gente. Giovani,
Ma come sapevate che sarebbe arrivato?
Nei quartieri era girata la voce che sarebbe tornato. I quartieri sono un po’ il nostro giornale live. Passano le notizie importanti, poi la gente decide. Così la voce è corsa di casa in casa. Prima ancora di saperlo, per la verità, non capivamo perché tutti strappassero rami dagli alberi, anche dalle nostre bouganville. Poi abbiamo capito, era per festeggiare l’ospite!
Quindi la gente, saputo dell’arrivo del premier Abiy, si è preparata?
Si. Fin dal mattino presto. Per strada c’era molta gente. Erano commoventi le donne anziane appoggiate ai loro bastoni. Tutti eravamo felici di partecipare. Molti balli, canti, anche quelli tradizionali religiosi. Le persone man mano che arrivavano, cercavano gli amici, la gente del proprio quartiere. Erano tutti vestiti bene, in ordine, come fosse una festa privata.
Per festeggiare il premier Abiy?
Non solo. Soprattutto per festeggiare la certezza che non ci sarebbe stata più la guerra. Che non avremmo dovuto temere nuovi attacchi. La felicità più grande era per i nostri ragazzi, figli, fratelli, mariti, che non sarebbero più dovuti andare al fronte. La felicità era sapere che ora tutti sarebbero tornati a casa. Vedere le due bandiere, quella eritrea e quella etiopica sventolare vicine è stato bellissimo.
Mi diceva che c’erano tanti giovani, loro cosa pensano di quanto sta accadendo?
Mentre ero ad Asmara molti ragazzi, figli di parenti e amici, erano in partenza per Sawa (ndr la scuola dove i giovani eritrei frequentano l’ultimo anno) ed erano contentissimi. Li sentivo determinati a farcela, ad andare al College. Ora vedono un futuro. Non rifiutano il servizio militare, lo ritengono un dovere, sapendo però che durerà solo diciotto mesi. Adesso hanno la speranza, glielo si legge negli occhi. Questo è il cambiamento che mi ha molto colpita.
Torniamo all’arrivo di Abiy. Com’era organizzata la sicurezza, c’erano transenne, polizia…
Asmara e l’Eritrea sono luoghi sicuri. Anche in quei giorni i poliziotti erano disarmati. Ci avevano detto di essere attenti. Se avessimo visto qualcosa di insolito avremmo potuto riferirlo alla polizia che sarebbe intervenuta. Ma non è successo niente. Credo che il premier Abiy non si aspettasse un’accoglienza così festosa…
Dunque Asmara in festa era una città diversa dal solito?
Ovunque si sorrideva, augurandosi la pace. Se prendevi un taxi collettivo, subito l’autista, o un altro passeggero, ti dicevano di essere felici per la pace. Così nei negozi. Davanti al municipio ho persino visto dei giovanissimi ragazzi etiopici che fotografavano la strada, i passanti. Facevano selfie. Non conoscevano Asmara ed erano curiosi di vedere la capitale eritrea di cui tanto si parla in questo periodo. Ci siamo abbracciati. Per me, che ho dovuto lasciare Asmara da bambina, è stato un attimo di grande felicità. Quello di quest’anno è stato il viaggio più bello.
Lei parlava di ragazzi eritrei che vedono un nuovo futuro, pensa che la pace e la ripresa economica del paese, li dissuaderanno dall’affrontare viaggi drammatici, diventando merce per i trafficanti di uomini?
Quello che dicono ora i ragazzi, i figli degli amici, i ragazzi del quartiere, guardando al futuro è questo, se potremo lavorare qui, perché andarcene? In Eritrea si sta bene.
I giovani se ne andavano per cercare un lavoro?
Certo. Anche esasperati dalla condizione. Ho cugini che erano nella situazione di allerta causata da “no peace no war” dal 1996…Adesso verranno congedati.
E i più giovani?
Chi non riesce ad entrare nel College, dopo l’ultimo anno a Sawa, farà corsi di formazione per imparare un mestiere e lavorare.
Tra l’altro sembra che ormai i giovani abbiano capito i problemi che ci sono in Libia…
La Libia ha offerto ai giovani eritrei ciò che volevano, istigati dall’Occidente. In Libia agiscono bande criminali, ma è l’ultima meta di un lungo viaggio…
Nessuno arriva in Libia dall’Eritrea, direttamente. Sempre via Sudan o Etiopia. Ma questi lunghi viaggi ora devono finire.
Anche in Europa la situazione per i ragazzi eritrei non sempre è buona. E chi trova lavoro torna spesso in Eritrea dove ha la sua vita, i suoi affetti.
Ha trovato ad Asmara delle novità nella vita di tutti i giorni?
La gente, come dicevo, è più rilassata, più tranquilla. Pensano al domani, progettano. Nel 2015 ero stata ad Asmara circa tre mesi. C’erano motivi per lamentarsi, mancava la luce. Adesso la corrente c’è praticamente sempre.
Il problema dei blackout era dovuto al fatto che in pochi anni il bisogno di energia era cresciuto moltissimo. Prima, penso alla generazione di mia mamma, per uso domestico non c’era quasi bisogno di elettricità.
In casa c’erano solo qualche lampadina e, al massimo, la radio. Adesso è elettrico anche il mogogò, il forno per cucinare l’injera, il nostro piatto tipico. Che è praticamente in tutte le case. Come il frigo, la lavatrice, la televisione, il phon. E poi la città, rispetto agli anni Ottanta, si è molto ingrandita.
Non manca più nemmeno l’acqua. Fortunatamente ha piovuto molto, così noi, per esempio, abbiamo riempito la riserva, cioè la vasca sotterranea in giardino. Inoltre anche la municipalità sta lavorando. Da noi l’acqua non arrivava perché le tubature pubbliche erano rotte. Ora le stanno aggiustando.
Nei mercati non solo c’è di tutto ma, rispetto a tre anni fa, i prezzi sono più bassi. Sono andata al mercato, con mia zia, a comprare il teff, il cereale per l’injera. Nel 2015 ricordo di averlo pagato 12 mila Nakfa al quintale, adesso anche se il cambio è alto, il teff migliore andava da 6 a 7.000 nakfa/quintale. (ndr, attualmente 1 euro vale 18 nakfa circa). A Mendeferà costava anche meno. E parlo del teff che cresce in Eritrea, più caro perché ce n’è meno rispetto all’Etiopia.
Tutti i prezzi sono scesi dopo l’apertura delle frontiere.
Adesso è aperta anche la strada che ci collega alla regione etiopica del Tigray.
Ho sentito in televisione parlare le persone che vivono a Rama (ndr, città a 7 chilometri dal confine eritreo) dicevano che loro erano commercianti. Lavoravano con l’Eritrea e, prima della chiusura dei confini, erano pendolari, abituati ad andare la mattina a Massawa per rientrare a casa a fine giornata. La guerra ha interrotto il loro lavoro. Adesso sono felici di poter riprendere.
Gli unici scontenti sono i wayane,(ndr, gli etiopici del TPLF, Tigray Peopole’s Liberation Front), persone che avevano un potere che hanno perso. Per questo continuano a protestare.
In conclusione, lei come vede il futuro della sua città?
Ad Asmara si vive benissimo. Vorrei tornare. Chissà magari avviare un’attività…
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