Roma, sgomberati gli eritrei dal palazzo di Via Curtatone
ROMA, sgomberati gli eritrei dal palazzo di Via Curtatone
In questi giorni abbiamo letto la notizia: Roma, sgomberato dalla polizia il palazzo di Via Curtatone occupato abusivamente. Via tutti, eritrei, etiopici, somali.
L’abusivismo in Via Curtatone durava dal 2013. Allora, dopo la tragedia del 3 ottobre nella quale morirono davanti a Lampedusa più di 300 eritrei, l’amministrazione comunale romana decise di chiudere un occhio sull’occupazione di un immobile destinato a ospitare uffici o, forse, un albergo di lusso.
Da un lato l’Italia, condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per i respingimenti verso la Libia (2012) si apprestava, con l’operazione Mare Nostrum (2013) a salvare da naufragio certo e morte in mare, migliaia di migranti. Almeno fino a quando i 9 milioni di euro al mese, costo dell’operazione, non sono diventati troppi. Dall’altro si poneva urgente il problema dell’accoglienza. E su questo punto l’Italia, per aggirare il contestato Trattato di Dublino, cercò de facto di evitare di riconoscere i migranti che arrivavano sulle nostre sponde. In questo modo essi avevano la possibilità di proseguire il viaggio.
E ai migranti stava bene così. Per gli eritrei, per esempio, l’Italia, non è quasi mai la meta, solo il passaggio per raggiungere il Nord Europa. Perché sono, a dispetto di quanto dichiarato, “migranti economici”.
Cioè si spostano altrove, come facevano i nostri nonni e bisnonni, per cercare un lavoro pagato meglio. Allora si chiamavano semplicemente “emigranti”, anche se a spostarsi erano intere regioni.
Tra gli eritrei che in questi anni sono arrivati in Italia ci sarà stato chi è fuggito per motivi politici. Tuttavia la gran parte, il 90 per cento a detta di un diplomatico occidentale di stanza ad Asmara, se ne va per cercare un luogo dove vivere meglio. Cioè è migrante economico.
L’Eritrea è un paese povero. Nessuno però vi muore di fame. Non c’è guerra ma il mancato rispetto dell’accordo di Algeri sui confini Eritrea-Etiopia (2002) ha creato un perenne stato di crisi. Molti di quelli che oggi abbandonano l’Eritrea sono parenti di chi era scappato all’estero durante l’occupazione etiopica di Menghistu Heilè Mariam, negli anni ’70. Allora non c’era scampo, bisognava fuggire. Oggi è una scelta.
È probabile che nello sgombero di Roma molte e diverse storie di eritrei e etiopici, fuggiti per motivi differenti, si siano ricongiunte, accumunate dall’identico destino: perdere casa, ancora una volta.
È stato giusto buttarli in strada? I poliziotti hanno usato una “modica quantità” di violenza, oppure hanno esagerato? Cosa ha spinto, dopo circa quattro anni, Prefettura e Comune di Roma a prendere, proprio quest’agosto, una simile decisione? Che fine faranno i molti che lì abitavano? Dove andranno a dormire, passato il momento dimostrativo dell’occupazione dei giardini di Piazza Indipendenza? Molte di queste domande sono destinate a rimanere aperte.
L’opinione pubblica ha visto immagini violente e strappalacrime. Il poliziotto che accarezza la migrante sfrattata. Una foto Ansa, diventata popolarissima. Una foto che ha fatto ricordare le parole di Pier Paolo Pasolini che, commentando gli scontri di Valle Giulia tra studenti e poliziotti, scrisse: “io sto con i poliziotti”. Sottintendendo che loro erano i proletari, lì per lavoro. Gli studenti invece erano borghesi, figli di papà, lì per scelta.
La situazione di Via Curtatone, però, è diversa. Poliziotti e sfollati non sono borghesi. Gli uni eseguono gli ordini ricevuti. Gli altri cercano di non perdere la casa, anche se occupata abusivamente.
“Molti di loro” dice un eritreo residente a Roma “hanno permesso di soggiorno, vivono in Italia da più di 10 anni. Sono persone che devono capire che, visto che hanno un lavoro, devono vivere nella legalità. Pagando affitto, luce, gas. Possono farlo”.
“Nel video girato lo scorso novembre Il palazzo della vergogna”, continua l’uomo che preferisce rimanere anonimo, “avete potuto vedere gli appartamenti occupati sia da etiopici, sia da eritrei. Dentro la stanza occupata della coppia etiopica sul frigorifero c’era la calamita con la bandiera etiopica. Mentre in quella del giovane eritreo, sul muro, era appesa la bandiera eritrea”.
Fin qui le vite normali, pur nell’illegalità.
“Però” prosegue “si sapeva che nel palazzo non vivevano solo persone per bene. Lì abitava anche il gruppo responsabile dell’agguato avvenuto lo scorso luglio contro l’ambasciatore eritreo. E lì avevano casa le persone che nel 2016 hanno cercato di fermare il pullman con gli eritrei in partenza per Ginevra. Una manifestazione della diaspora eritrea in Europa contro il report della Commissione d’Inchiesta”.
“Il palazzo” aggiunge “era diventato un ricettacolo per traffici illeciti, spaccio, prostituzione. Persino trafficanti di uomini stavano lì”. “Una situazione” conclude “che andava sanata”.
Cosa pensate dell’intervento della polizia, gli chiedo.
“La polizia si è mossa correttamente. Ha fatto il proprio lavoro”.
“Spero” dice infine “che le organizzazioni umanitarie che si sono occupate dei soccorsi, non strumentalizzino l’aiuto dato”.
La comunità eritrea di Roma nei giorni scorsi ha inviato ai giornali un comunicato stampa in cui esprime la propria preoccupazione e “invita tutti gli eritrei di Roma e del Lazio affinché si attivino per offrire accoglienza ai loro concittadini più sfortunati”.
La comunità eritrea del resto, com’è risaputo, è formata da persone molto solidali. Abituate dalle circostanze storiche, non solo dal buon carattere, a tendere una mano, per aiutare, senza pubblicità, chi fra loro ne ha bisogno.
Così faranno anche stavolta.
Tuttavia, per commentare quest’episodio di sgombero forzato non si può ignorare la spinta che in questi ultimi anni molti eritrei hanno ricevuto per lasciare il proprio paese.
Una spinta e un aiuto arrivati proprio dall’Occidente. Le ambasciate occidentali presenti ad Asmara non danno visti per l’Europa. Però se un giovane eritreo, complici i trafficanti, arrivato in un paese Ue, dichiara di essere uscito per motivi politici, non economici, la sua richiesta di asilo è accolta.
I numeri dei migranti giunti dal Corno d’Africa quindi sono lievitati proprio grazie all’arrivo massiccio di persone che si dichiaravano eritree. Anche se non sempre lo erano. Perché, conoscendo il vantaggio a dichiararsi tali, etiopici, somali e persino sudanesi sono diventati, una volta in Italia, “eritrei”.
L’Eritrea, però, ultimamente, ha interrotto l’isolamento, cercando un dialogo con la comunità internazionale.
Ha ospitato delegazioni indipendenti, politici, istituzioni, giornalisti. Gente che arrivava dall’Europa.
Chi, come me, ha accettato, ha visto un paese diverso da quello descritto di solito dalla stampa occidentale.
A onore del vero, adesso, anche tale stampa, quando è libera di esprimersi, racconta i passi in avanti compiuti dall’Eritrea, paese giovane, autonomo dal 1991.
Certo aiutare l’emigrazione di massa, non fa compiere passi avanti. È una guerra fredda, un attacco politico pagato dai più fragili. Persone consegnate, come merce, a chi con loro si arricchisce.
“La Comunità eritrea” si legge nel comunicato stampa diffuso dopo i disordini di Roma, “da anni lotta per fermare il traffico di esseri umani”. Tuttavia pur essendo “per il ripristino della legalità e contraria all’occupazione abusiva di immobili , è consapevole della carenza di tutela di chi è stato riconosciuto come rifugiato politico e poi lasciato solo, quando invece quello status avrebbe dovuto comportare alcuni diritti basilari, come un tetto sopra la testa”.
E questo è il nodo del problema: il tetto sopra la testa.
Che non poteva essere quello di Via Curtatone, 3.
Gioiello razionalista anni ‘50 a due passi dalla stazione Termini e dal Consiglio Superiore della Magistratura, valutato circa 80 milioni di euro.
Però un tetto a chi non spaccia e non compie illeciti, a chi ha un lavoro e documenti in regola, Roma dovrà procurarlo.
Questa ormai è l’unica via, per una società multietnica, come ormai sono le nostre, per esserlo con dignità, senza lasciare spazio alla violenza.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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