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Parte seconda- EritreaLive intervista Yordanos Mehari, un anno ad Asmara

Marilena Dolce
07/03/17
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Un anno ad Asmara, dall’Italia all’Eritrea, per lavorare-parte seconda

ERITREALIVE intervista YORDANOS MEHARI

Yordanos Mehari intervistata da EritreaLive

Yorda è una giovane donna eritrea, nata e cresciuta a Milano che ha studiato in Inghilterra e in Svezia e che, l’anno scorso, ha fatto una scelta in controtendenza, lasciare Milano per lavorare ad Asmara, in Eritrea, suo paese d’origine.

È una scelta che stupisce…

Sì ed è uno stupore doppio. Ci si stupisce in Italia ma, a volte, anche in Eritrea. Infatti, arrivata ad Asmara, mi sono sentita chiedere: “come mai vieni qua?”. Molto spesso si sottovaluta la ricchezza del proprio paese, aspettandosi molto dall’Occidente sognato e visto in televisione o che si vive attraverso noi.

Attraverso la diaspora intendi?

Il legame familiare, con i parenti all’estero, è sempre stato molto forte. Lo ricordo anch’io. Da sempre chi vive all’estero manda in Eritrea le proprie foto, anche per rassicurare le famiglie, per dire che si sta bene.

Negli ultimi anni quasi tutti, giovani e adulti, hanno gli smartphone. Ci si collega negli internet point delle città. Le parabole, che sono ovunque, portano nelle case i canali tv.  Dove c’è elettricità ci sono parabole e televisioni. In occidente c’è l’idea che l’Eritrea sia chiusa ma non è così.

Nelle case eritree, in particolare ad Asmara, oltre ai canali nazionali quelli stranieri sono molto seguiti, ci sono i canali arabi, in amarico, in inglese.
 Tra Le trasmissioni più seguite di EriTv ci sono i drama, le telenovele, perché sono fedeli alla cultura e alla tradizione, le news invece si seguono anche su altri canali d’informazione, su giornali e magazine.

La modernità in Eritrea è iniziata con frigoriferi e tv, ora è il momento della parabola.

Il paese non è chiuso alle notizie.

L’Occidente visto in televisione è uno dei motivi per cui i giovani escono dal paese?

Ha contribuito alle illusioni.

Come dicevo, l’idea di una vita migliore prima arrivava dalle foto spedite dai nostri genitori, dove si vedevano belle case e belle macchine. Le foto mostravano che si viveva bene, mostravano uno stile di vita diverso da quello in Eritrea. Oggi c’è Facebook.

Internet non è costoso ed è abbastanza veloce. Su Fb si trovano i parenti, si vede la loro vita, il loro benessere occidentale. È un impatto molto forte.

Ho molti amici che vivono ad Asmara, che si collegano e si tengono in contatto con l’estero attraverso Fb. Quale modo migliore per immaginare la vita all’estero che vedere foto e video? È un’influenza forte.

Incide sulle scelte di vita?

Asmara, centro città, l’Albergo Italia, una delle più vecchie costruzioni

Sì, penso di si. Se si hanno parenti all’estero ci si chiede: perché non andare?

Come si vive oggi in Eritrea?

In Eritrea ci sono diverse realtà, anche nella stessa Asmara. 
Una persona che fa il servizio militare ha una vita diversa da una che fa il servizio civile. Anche ad Asmara però c’è l’idea di poter cercare altrove un futuro migliore. Perché anche qui, come in qualsiasi angolo del mondo, i giovani cercano stabilità economica e più certezze. 

E il buon futuro per gli eritrei dov’è?

All’orizzonte molti vedono un’Europa in cui si vive bene. Probabilmente, come dicevo, un’idea che hanno dato già i nostri genitori. La migrazione viene descritta come fenomeno recente, però dall’Eritrea si emigra da tempo. La diaspora, dal 1991 in poi, è sempre tornata in Eritrea, ogni anno. E ognuno ha, da sempre, cercato di aiutare economicamente i propri cari.

Questo ha creato il desiderio, penso, anche nei giovani, di aiutare le proprie famiglie. Diventare qualcuno, essere indipendente, farsi una famiglia, queste sono le ovvie aspettative.

Così la generazione nata dopo l’indipendenza mette in conto il pericolo di viaggi, senza visti e senza sicurezza, pur di raggiungere un Occidente ricco?

Questo è il vero problema.

Quello della migrazione non è un fenomeno nuovo per gli eritrei. In questi anni si parla di ondate migratorie ma in realtà per noi è una realtà che va avanti da decenni. Un tempo (ndr, quando gli eritrei fuggivano dal regime etiopico di Menghistu) però era diverso, meno pericoloso.
 Prima si passava dal Sudan per poi arrivare in Europa e chiedere lo stato di rifugiato.

Gli eritrei scappavano dalla dominazione di Menghistu?

Si, fino alla liberazione. Dopo l’indipendenza, però, agli eritrei non è più stato riconosciuto lo status di rifugiato. Così, già in Sudan, le persone diventano asylum seeker, richiedenti asilo, non più rifugiati, una differenza importante.

Richiedenti asilo sembra un termine nuovo ma non lo è. Il fenomeno è identico, cambia il percorso. Prima il percorso era dal Sudan verso America e Europa, con documenti a volte falsi ma non sempre.  In seguito, controlli maggiori e la diversa situazione, hanno modificato la rotta.

Oggi, non essendo possibile ottenere visti per studio o lavoro dalle ambasciate occidentali di Asmara, come avveniva invece in passato, arrivati in Sudan gli eritrei devono affrontare il deserto.

Così, anche per le persone che escono dall’Eritrea legalmente, l’unica possibilità per entrare in Europa e, soprattutto, per essere accolti, è quella di chiedere asilo per motivi politici.  

Come vivete questa situazione drammatica e complessa?

È una grossa angoscia per ogni eritreo in Europa.
 Il dolore del viaggio dei connazionali, esperienze drammatiche e un racconto dell’Eritrea che non corrisponde al paese, non la dice tutta.

Noi ci troviamo nel mezzo, cerchiamo di capire e di spiegare. Cerchiamo risposte, ed è molto difficile perché qui si parte da una rappresentazione dell’Eritrea che, molte volte, è distorta.

In che senso?

Nel senso che la descrizione dell’Eritrea di cui si sente molto parlare è una descrizione che non corrisponde al vero. È vaga e pigra. Raffigura l’Eritrea come paese chiuso e lì si ferma. È solo negativa.

La narrativa sull’Eritrea oggi è pessima, invece tra il 1991 e il 1998 l’Eritrea era descritta come oasi di pace e stabilità, un esempio per l’Africa. In seguito, con le vicende politiche, è cambiata anche la descrizione. È diventata cattiva. 
Ma chi va in Eritrea per cercare di capire si accorge subito che il quadro proposto all’estero è troppo schematico, troppo semplice.

Cosa manca a quel quadro?

Non si vuole parlare dell’Eritrea che cerca di lavorare per il proprio sviluppo.
 Molte volte i media mainstream si allineano alla politica internazionale, contro il paese. Questo è il problema. Fino a quando le relazioni internazionali sono state buone, si è cercato di scusarsi con un paese dimenticato per trent’anni.

Un paese che è stato costretto a combattere da solo una guerra che non interessava a nessuno perché si voleva che l’Eritrea rimanesse una provincia etiope.

Si temeva che l’Eritrea, che eccezionalmente si ribellava alla dominazione etiope voluta da potenze internazionali, come USA e URSS, non si sarebbe poi inginocchiata alle strategie e al volere di queste potenze nella regione, se fosse diventata indipendente.

Inoltre veniva descritta come un paese che avrebbe potuto favorire l’estremismo religioso.

Nei primi anni, subito dopo l’indipendenza, tutto è andato bene. Il paese non doveva avere l’occasione per puntare il dito contro le grandi potenze che l’avevano abbandonata, che avevano lasciato che la guerra andasse avanti 30 anni, che il paese non fosse indipendente.

E poi?

Poi la politica internazionale ha cambiato atteggiamento, così è cambiata la narrativa, una narrativa difficile da smontare, molto omogenea.

Dopo l’indipendenza le priorità dell’Eritrea e dell’Occidente non coincidono. L’Eritrea pensa alla ricostruzione del paese, l’Occidente si aspetta la costruzione di una democrazia di stampo occidentale…

Bisogna capire la complessità del paese. Una realtà che non si conosce vivendo all’estero.

L’Eritrea è un paese che ha subito e subisce aggressioni, che deve avere truppe per difendere il confine e la nazione. Una situazione pesante, che va avanti dal 2000…

È un paese con 5 milioni di abitanti che deve difendersi da un nemico con 90 milioni e più di abitanti. La narrativa consolidata non descrive l’Eritrea, un paese piccolo con una situazione grave. Un paese che deve fare i conti con la comunità internazionale e le sue varie agenzie che ignorano il Trattato di Algeri.

Questo è un pezzo di storia che non è mai raccontato. Si parla di una dittatura eritrea che tiene i giovani sotto la leva militare, però non si spiega il perché.

Si dice che la leva obbligatoria sia un pretesto per militarizzare il paese…

La leva un pretesto? Come potrebbe fare il governo eritreo a usarlo come pretesto quando c’è un trattato internazionale che, pur  riconoscendo i territori come eritrei, non è mai stato rispettato? Ricordiamo poi che le truppe etiopiche, durante l’ultimo conflitto, marciavano verso Asmara. Non era una questione di territori ma lo scontro tra due nazioni.

Si voleva che l’Eritrea fosse di nuovo parte dell’Etiopia?

Questa è una minaccia che l’Eritrea ha sempre denunciato. Poi è diventato un modo per bloccarne lo sviluppo, come del resto le sanzioni (ndr, 2009). Situazioni oggettive che gravano sul paese e sul processo di ricostruzione.

Una ricostruzione difficile che, proprio per questo, dovrebbe essere sostenuta dai più giovani che, invece, se ne vanno, come mai?

Per questioni economiche. I giovani, giustamente, cercano prospettive sicure. Se mancano, anche chi non vorrebbe, decide di andarsene perché vede la propria situazione diventare critica.

Io sono andata in Eritrea perché avevo la prospettiva di un lavoro. Sono molti gli eritrei della diaspora che tornano nel paese, per cercare di contribuire positivamente.

La base, però, dev’essere la pace. È la pace che dà speranza…

Speranza e pace, due belle parole per chiudere la nostra lunga intervista.

Marilena Dolce

@EritreaLive

 

 

 

 

 

 

 

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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