Il futuro dei giovani eritrei? Quasi mai in Italia
Il futuro dei giovani eritrei? Quasi mai in Italia.
Ariam Tekle, autrice e regista del corto “Appuntamento ai Marinai”, durante la presentazione a Milano presso la Comunità Eritrea
Dall’“Appuntamento ai Marinai” verso Londra e New York.
Queste sono le mete scelte dai giovani eritrei che vivono in Italia.
I giovani eritrei nati negli anni ’80, a Milano si danno appuntamento in una piazza, Largo Marinai d’Italia. Questo è il titolo scelto, quasi quarant’anni dopo, da Ariam Tekle per il suo corto, “Appuntamento ai Marinai”, un documentario che racconta la storia di un gruppo di giovani, soprattutto eritrei, che vivono in Italia in quegli anni.
La narrazione, lieve, lascia la parola ai protagonisti. Sia quelli rimasti in Italia, sia quelli che si raccontano da Londra e New York, via Skype.
Nell’esperienza quotidiana non è il razzismo delle persone, dicono i protagonisti, a offenderli, piuttosto la lontananza delle istituzioni. Un razzismo che diventa norma, pervadendo la vita di stereotipi. Così a un giovane eritreo si può chiedere “se ha del fumo”, dando per scontato che di quello si occupi. E lui, ovviamente, considera la richiesta un’offesa.
In realtà i protagonisti del corto, amici che si ritrovano ai “Marinai”, sono un’ottima rappresentazione dello ius culturae.
Dell’Italia conoscono e condividono tutto, iniziando dalla realtà che li circonda. Studiano nelle scuole pubbliche italiane, imparano la lingua, fanno i compiti all’oratorio, giocano a calcio e basket, suonano nei complessi musicali. Unica differenza con i giovani italiani era la necessità di un convitto perché le mamme, arrivate negli anni Sessanta o Settanta, lavorano quasi sempre come domestiche a tempo pieno. Quindi per loro sarebbe difficile occuparsi dei figli piccoli o adolescenti.
Il gruppo dei “Marinai” argina con l’amicizia il pericolo di sentirsi soli, abbandonati, e di fare, per questo motivo, scelte pericolose. A fianco al gruppo la presenza di molti volontari e insegnanti italiani che, nel pomeriggio, organizzano il doposcuola, per lo studio e i compiti diventando amici dei ragazzi, oltre che un prezioso sostegno. Anche per le nuove generazioni, ragazzi nati in Italia negli anni Novanta, più giovani di chi andava allora ai “Marinai”, la vita si è svolta più o meno così, tra amici e oratorio.
“È quello che ho vissuto anch’io” dice Daniel che ha assistito alla proiezione milanese di Appuntamento ai Marinai. “Per me però”, prosegue, “oratorio e piazza sono stati condivisi con altri immigrati, non solo eritrei e anche con ragazzi italiani”. “Gli episodi di discriminazione comunque”, spiega, “sono sempre gli stessi, anche 15 anni dopo”. “Una cosa interessante” continua “è quella che dice nel corto la ragazza che ora vive a New York, cioè che aver scelto di andarsene da Milano, forse, non è stata la cosa giusta. Forse rimanendo avrebbero potuto esserci d’aiuto”.
Perché emigravano i genitori di questi ragazzi?
Abbandonavano l’Eritrea negli anni del regime etiopico. L’Eritrea al termine del colonialismo italiano, nel 1941, diventa un protettorato inglese, quindi, per decisione delle Nazioni Unite è federata con l’Etiopia. Poco dopo l’Imperatore Heilè Selassiè, nel 1952, la annette. Sono gli anni in cui gli eritrei decidono che, se vogliono un paese libero, dovranno lottare.
Terminato l’Impero la situazione per l’Eritrea non migliora. Il governo del nuovo regime etiopico, retto dal Derg del colonnello Menghistu Heilèmarian rende impossibile la vita a molti, soprattutto agli eritrei che scelgono tra due strade, l’emigrazione o la lotta clandestina.
All’estero si forma perciò la prima generazione della diaspora che diventa sempre più numerosa, fino al 1991, anno dell’indipendenza dell’Eritrea, data che, per molti, vuol dire rientro in patria.
Spesso le donne eritree migrano in Italia. Conoscono la lingua, le abitudini. Hanno già lavorato per gli italiani. A volte a far da tramite per il viaggio e a trovar loro lavoro è la chiesa cattolica in grado di fornire nomi e indirizzi utili.
Così se è vero che, ad oggi, gli immigrati nel mondo sono solo il 3 per cento perché il restante 97 non si muove dal proprio paese, gli eritrei fanno eccezione. Loro sono stati costretti a muoversi.
Non erano “migranti economici” non erano “richiedenti asilo per motivi politici” nonostante il motivo della loro emigrazione fosse politico. Uscivano con un regolare passaporto etiopico, in cerca di un futuro migliore, lontano da razzie e soprusi, lontano dal proprio paese martoriato.
Sono gli stessi anni in cui l’Italia mantiene buoni rapporti, diplomatici e politici con l’Etiopia. Ad essere guardata con sospetto, non è l’Etiopia, piuttosto la guerriglia eritrea e la sua richiesta d’indipendenza che l’Occidente considera impossibile.
La vita all’estero non è semplice. Dice nel corto una ragazza che un tempo frequentava i “Marinai” e ora vive in America: “qui però nessuno mi chiede chi sono, da dove vengo. Anzi per la prima volta dico che sono italiana. In Italia avrei sempre detto di essere eritrea”.
“Questa è una frase che colpisce”, commenta Daniel. “Sono italiano? Sono eritreo? È una domanda che da piccolo mi ponevo. Oggi anch’io posso affermare di essere entrambe le cose, eritreo e italiano”. “La domanda” prosegue “che spesso mi faccio è: cosa vuol dire, però, essere italiano?”
Risposta difficile. Forse come cantava Giorgio Gaber, “ma per fortuna o purtroppo, lo sono”. Italiano.
Vivere in un paese diverso dall’Italia significa poter vivere una quotidianità più spensierata, con leggerezza, dice Daniel. Questo è uno dei motivi per cui tanti eritrei scelgono Londra o l’America.
Nel documentario, allo strisciante razzismo italiano che chiede, giudica, offende, gli intervistati preferiscono l’anonimato di metropoli europee multiculturali, nelle quali poter essere un numero. Anche se il melting pot non per forza significa integrazione. Anzi, nel calderone spesso ogni gruppo sta a sé.
Per la generazione eritrea degli anni Ottanta che vive a Milano essere neri e figli d’immigrati è stato un peso. E oggi? Secondo Daniel anche oggi non è semplice perché, dice, anche se si cresce insieme restano molte divisioni, molti luoghi comuni negativi.
E l’attuale dibattito politico sull’immigrazione certamente non aiuta.
Già perché oggi dall’Eritrea arrivano in molti. I numeri forniti dall’Unhcr, pur inferiori a quelli del 2015-2016, stimano gli arrivi annui via mare in circa 172 mila, mentre nel 2016 erano stati 362 mila e più di un milione nel 2015.
Da gennaio 2017 a febbraio 2018, sempre dati Unhcr, gli arrivi più numerosi sono stati quelli dei siriani, 19.175, i meno numerosi gli eritrei, 8.364. Poiché le partenze via mare avvengono soprattutto dalla Libia, ad essere interessati al fenomeno sono i porti del nostro meridione.
Scriveva già negli anni Novanta il filosofo Charles Taylor che i paesi del Primo mondo fanno di tutto per escludere quelli del Terzo, limitando i permessi di lavoro e soggiorno a persone di immediata rilevanza sociale. Per gli altri resta l’espulsione. Già allora il concetto era “porre un argine alla marea”. Quello che si teme, dice Taylor, dell’immigrazione è che metta in crisi il concetto stesso di nazione. Spaventa un forte afflusso di migranti che potrebbe modificare la composizione sociale della popolazione, il suo profilo etico-culturale.
Quindi gli eritrei che oggi emigrano verso l’Europa, se non hanno caratteristiche d’eccellenza, se non rientrano nelle categorie privilegiate, possono solo “richiedere asilo”, spiega Maurizio Ambrosini, sociologo, specializzato nello studio delle migrazioni.
Anche dall’Eritrea, dice il professore, non partono i più poveri, ma gli studenti, le fasce colte.
Un tempo nell’ex colonia italiana la scolarizzazione non era certo una priorità. Le scuole, per lo più rette da missionari cattolici, si costruivano per dare istruzione ai figli dei coloni italiani. Agli eritrei era riservata una frequenza minima, giusto per capire la lingua e poter lavorare.
Sono gli inglesi a dare impulso alle scuole, introducendo anche la loro lingua. Infine, nel 1993, l’Eritrea indipendente promuove per tutti il diritto gratuito all’istruzione. L’insegnamento è nelle lingue locali per le primarie, poi in inglese fino al College.
Quindi oggi i giovani eritrei più scolarizzati, con la conoscenza dell’inglese e con maggiori aspettative rispetto ai genitori, “mettono insieme le risorse per partire, per tentare l’avventura verso l’Europa”, dice Ambrosini.
Purtroppo l’unico modo per emigrare, in mancanza di un visto, è affrontare viaggi rischiosissimi. Poi, una volta arrivati, richiedere asilo perché, come migranti “economici”, cioè in cerca di lavoro, sarebbero respinti.
Secondo il rapporto compilato dalla commissione danese per l’immigrazione (Danish Immigration Service) negli anni di massima emigrazione dal Paese, 2014-2015, “il 99.9 per cento di eritrei che richiedono asilo in Europa è un migrante economico”. Così ha dichiarato un’ambasciata occidentale di Asmara.
“I ragazzi che partono dall’Eritrea” spiega Ambrosini, “appartengono a un gruppo sociale fortunato, gente che può contare su una colletta tra parenti. In genere partono i primogeniti maschi perché la famiglia fa un investimento oculato. È una partenza determinata dal sogno di un mondo migliore. Per intendersi, quando si dice che i migranti vedono la televisione, poi arrivano, in realtà va notato che vedono la stessa televisione che noi accusiamo di portarci cattive notizie. Quello che si vede dipende dagli occhi di chi guarda. Per loro è la porta della speranza”.
“Tendo a credere” continua il professore “che, se anche in Italia si fa fatica a dare un futuro ai giovani, l’Eritrea abbia qualche problema in più… le migrazioni dall’Africa Sub Sahariana sono prevalentemente formate da gente istruita. L’aspettativa è che l’istruzione che hanno ricevuto nei propri paesi offra più occasioni in Europa o in America”.
Tutti i giovani africani sognano l’Occidente?
“L’esperienza”, risponde il professore, “è che gli studenti africani quando vanno a studiare in Europa poi non rientrano più nei paesi d’origine. Si fermano all’estero. Su questa scelta può pesare l’instabilità politica dei singoli paesi ma anche la spinta delle famiglie, felici di avere figli che lavorano all’estero. Quasi mai chi studia all’estero rientra nel proprio paese per contribuire al suo sviluppo”.
“Eventualmente” conclude il professore “dall’Europa ci si sposta verso l’America, come abbiamo visto nel documentario Appuntamento ai Marinai”.
Perché oggi i giovani eritrei partono dall’Italia?
“Per cercare lavoro”, risponde Daniel. “Il precariato è diffuso per noi come per i giovani italiani”. Progetti per il futuro? Gli chiedo. “Rientrare da vincitore”. Rientrare in Italia o in Eritrea? “in Eritrea? Non ci ho mai pensato, sono nato e cresciuto qua”, risponde, “però penso che potrei trasferirmi nel mio paese d’origine se potessi aprire un’attività, se fosse possibile. Magari in futuro”.
Un futuro da costruire che potrebbe aprire le porte dell’Eritrea, per un viaggio di ritorno.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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