Eritrei nei campi profughi del Tigray, in Etiopia. La loro vita durante il conflitto scoppiato il 4 novembre scorso tra Tplf e governo di Addis Abeba.
Foto UNHCR/Chris Melzer
bambini eritrei nel campo profughi di Adi Harush in Etiopia
Il problema dei campi profughi dove si trovano i rifugiati eritrei è ora un problema nel più grande problema, il conflitto scatenato lo scorso novembre dal Tplf, contro il governo di Addis Abeba.
Per inquadrare il contesto storico, alcune date. Nel 1991, Meles Zenawi, leader del Tigray People’s Liberation Front, Tplf, diventa primo ministro del nuovo governo di coalizione. I tigrini sono in maggioranza nell’ Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, EPRDF.
Una situazione che resta tale fino al 2018 quando, dopo mesi di scontri e violenze nel Paese, che chiede un cambiamento politico, diventa primo ministro Abiy Ahmed, di etnia in parte oromo in parte amhara. Anche la federazione etnica EPRDF cambia e, nel 2019, diventa Prosperity Party, PP. Il Tplf rifiuta il PP ed esce dalla coalizione.
Il 9 settembre 2020 il Tplf non sospende le elezioni nella regione del Tigray, come richiesto dal governo centrale, per il pericolo Covid. Il 4 novembre, dopo un assalto delle milizie Tplf a una caserma militare nella regione del Tigray, Abiy Ahmed lancia prima un ultimatum, poi attacca militarmente, decretando nella regione lo stato d’emergenza per sei mesi. Tutto il paese si schiera con Abiy contro la fazione del Tplf.
I problemi umanitari causati dal conflitto, che in realtà sul campo dura relativamente poco, sono sostanzialmente due. Da un lato i 60 mila tigrini sfollati dalle loro case verso i campi profughi in Sudan. Dall’altro i 96 mila eritrei che vivono da oltre dieci anni nei campi tigrini. L’Unhcr è, in entrambi i casi, l’agenzia delle Nazioni Unite che se ne occupa.
Per questo motivo Filippo Grandi, alto commissario Unhcr, settimana scorsa è andato in Etiopia. Per occuparsi del problema degli eritrei nei campi profughi nel Tigray.
Obiettivo del viaggio al campo di Mai Aini, dove si reca con i rappresentanti di Arra, Agency for Refugee and Returnee Affairs, è constatare di persona le loro condizioni.
Già il 14 gennaio, infatti, con un comunicato stampa, Filippo Grandi aveva espresso preoccupazione per la loro sorte. Mentre dai campi di Mai Aini, che accoglie circa 20 mila eritrei e da quello di Adi Harush, che ne accoglie 30 mila, arrivano notizie rassicuranti, niente invece si sa di Hitsats, e Shimelba. Il primo è un campo di recente costruzione che ospita circa 20 mila eritrei, il secondo invece è il campo dove vivono i rifugiati che restano a lungo nella zona. Secondo una stima approssimativa potrebbero essere circa 6.000.
Cartina con i campi profughi in Etiopia
In questi giorni l’Onu ha dichiarato la sparizione di 20 mila rifugiati eritrei che vivevano proprio in questi due campi. Ventimila persone scomparse, comprese donne e bambini, che nessuno ha visto mentre abbandonavano i campi, che nessuno sa dove siano ora.
Per questo motivo l’Unhcr lancia l’allarme. Filippo Grandi dice di essere preoccupato per il “benessere e la sicurezza” dei rifugiati eritrei. Ma non solo. L’alto commissario si preoccupa anche per le notizie, “affidabili e di prima mano” che raccontano di “gravi e dolorose violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, rapimenti mirati e rimpatri forzati dei rifugiati in Eritrea”. Una situazione coerente, spiega, con le immagini satellitari open source dei due campi in questione che mostrano segni di incendi e distruzioni. Cos’è bruciato? Secondo quanto dichiarato dalla fonte citata, un magazzino viveri, una struttura sanitaria, una scuola, alcuni fabbricati.
Ma chi è stato ad appiccare l’incendio, se è stato doloso? Forse le milizie Tplf, per rifornirsi di cibo in un’area dove manca tutto? E con il campo in fiamme cosa avrebbero dovuto fare i rifugiati eritrei, mettersi in salvo, scappando, o rischiare la vita rimanendo?
Secondo l’Unhcr sono stati rimpatriati forzatamente.
E così si dichiara alla stampa che si teme che l’Eritrea abbia rapito i giovani per riportarli a forza in patria.
Una dichiarazione che i media riprendono, aggiungendo che i rifugiati eritrei ora sono in galera.
Il ministro dell’informazione eritreo smentisce. Scrive in un tweet che nessun eritreo è stato rimpatriato a forza, né ora né mai, ma l’accusa mediatica non decade. E prende il posto delle notizie sulle scorribande delle milizie Tplf.
Perché poi l’Eritrea proprio in questa circostanza avrebbe dovuto riportare a forza i rifugiati dai campi del Tigray in patria? Cioè, l’Eritrea chiude i confini di terra, cielo e mare, impone al Paese un severo lockdown, crea hotspot dove si fanno tamponi ai cittadini che devono rientrare dall’estero, decide la quarantena e, infine, si accaparra 20 mila rifugiati probabilmente positivi al Covid-19?
Non c’è stato nessun rapimento e nessuna deportazione forzata di eritrei dai campi profughi del Tigray. Sabato 23 gennaio lui stesso, infatti, era con una delegazione Unhcr e Arra,in visita nei campi profughi di Mai Aini e Adi Harush, e può confermare che gli eritrei sono ancora lì.
Melzer dichiara perciò alla stampa che l’accusa di rapimento e rimpatrio forzato, è falsa.
Ora, aggiunge, è ripresa anche la distribuzione di cibo, garantita dal World Food Programme delle Nazioni Unite. I rifugiati fortunatamente non muoiono di fame e la situazione sta migliorando.
Quindi nei due campi di Mai Aini e Adi Harush che accolgono circa la metà dei rifugiati eritrei presenti in Etiopia, le condizioni sono buone.
Un responsabile dell’organizzazione italiana Sant’Egidio, contattato a gennaio, sulla situazione dei campi spiega che “sebbene le notizie siano scarne e contraddittorie, il conflitto non si è svolto vicino ai quattro campi, quindi i rifugiati eritrei dovrebbero essere al sicuro, perché nonostante la guerra è probabile che i campi non siano stati bombardati”.
“Il problema nei campi”, continua, “è l’approvvigionamento di viveri, come del resto in tutto il Tigray”. Inoltre dopo lo scoppio del conflitto tra Tplf e governo federale, le agenzie presenti, Unhcr e ong, hanno ritirato tutto il loro personale.
L’ufficio di Shirè, quartier generale Unhcr nel Tigray, è stato subito evacuato.
Per questo motivo, aggiunge il responsabile di Sant’Egidio, “sappiamo che molti rifugiati sono scappati, cercando di mettersi in salvo e andando verso Addis Abeba”.
Tra loro magari molti di quei ventimila che ora mancano all’appello dell’Unhcr.
Scappati, forse, per il timore degli attacchi ai campi da parte delle milizie del Tplf, che potrebbero aver saccheggiato e incendiato il campo dove c’erano le riserve alimentari.
Sui saccheggi il sindaco ad interim di Mekallè dopo una riunione con la popolazione dice a un’emittente locale che nella zona ci sono state molte ruberie, in case private, uffici e presso strutture comunali. Nella stessa Mekallè, spiega, saccheggi e distruzioni sono stati compiuti non da gente proveniente da fuori ma da persone della stessa comunità. Una condizione dolorosa su cui la città dovrà riflettere, conclude il sindaco
Tornando ai campi dei rifugiati, per capire meglio la situazione è utile ricordare che, come spiega il responsabile di Sant’Egidio, sono gestiti da Unhcr e Arra. Cioè lo stato etiopico è parte in causa. E ciò è importante. Fino al 2018, prima dell’arrivo del premier Abiy Ahmed, infatti, per i rifugiati eritrei i campi erano ghetti organizzati, da cui si dice che a volte partisse il traffico di uomini.
Da lì gli eritrei non potevano uscire, almeno non legalmente. Di fatto non potevano lavorare e non avevano diritto a un documento d’identità. Nessun riconoscimento anagrafico. La situazione cambia nel 2019 con la riforma introdotta dal governo del premier Abiy che decide di inserire i rifugiati eritrei nel contesto sociale. Da allora i rifugiati hanno il diritto di uscire dai campi, per lavorare e studiare, oppure per visite mediche e motivi familiari.
Perciò quando è stato decretato lo stato d’emergenza molti dai campi sono scappati verso Addis Abeba. Quanti ce l’hanno fatta e quanti sono stati riportati indietro? Sono interrogativi per il momento senza risposte.
“Noi non abbiamo notizia”, dice il responsabile di Sant’Egidio “che bande dell’esercito eritreo siano entrate nei campi profughi e abbiano prelevato i rifugiati per portarli in Eritrea”.
Una situazione confermata anche da Carlotta Sami, Unhcr, sentita per telefono il 7 gennaio. Sulla situazione dei campi spiega che le notizie le hanno avute dagli stessi rifugiati, che parlavano di “persone armate non identificabili che avevano attaccato i campi”.
Facciamo un passo indietro. Come mai ci sono ben quattro campi per eritrei sul confine con l’Etiopia, nella regione del Tigray? In parte lo spiega Filippo Grandi durante la recente conferenza ad Addis Abeba. L’Etiopia, dice, è uno dei paesi che da decenni ospita più rifugiati, circa 900mila. Un impegno, aggiunge, di cui le va reso merito.
Però c’è un altro motivo se i campi per eritrei sono ben quattro e due nuovi, Adi Harush, ampliato nel 2012 e Hitsats aperto nel 2013.
Nel 2012, durante un intervento alla Clinton Foundation, l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama disse, riferendosi all’Eritrea, di voler aiutare le organizzazioni che ne avessero fatto fuggire i giovani. L’obiettivo, di concerto con l’Etiopia governata da Meles Zenawi, era spopolare l’Eritrea e ottenere un cambio di governo.
Nei due anni successivi il piano prosegue e la speciale Rapporteur per l’Eritrea, Sheila Keetharuth scriverà al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite che “l’emigrazione eritrea è una delle più elevate in rapporto alla popolazione”. Tanto che si devono aumentare i posti per i rifugiati eritrei in arrivo nel Tigray.
Per un giovane eritreo che vuole emigrare verso l’Europa o l’America, senza possibilità di visto, la via più semplice è passare dal Tigray, con una permanenza nei campi più o meno lunga. Quindi imbarcarsi dalla Libia verso l’Italia, per poi proseguire verso l’Europa.
Prima del 2018 chi fuggiva dall’Eritrea, si consegnava nel Tigray ai militari etiopici. Poi era inviato al centro di registrazione di Endabaguna, gestito dall’Unhcr. Quindi gli era assegnato il posto in un campo dove si parla tigrino come Shimelba, Mai Aini, Adi Harush e Hitsats. Tutti nel Tigray.
Dopo l’incontro tra la presidente etiope, Sahle-Work Zewde e Filippo Grandi, l’agenzia di Stato Fana ha scritto una breve nota in cui assicura che beni di prima necessità e servizi essenziali sono ripresi nei campi profughi del Tigray. Nessun accenno ai timori dell’Unhcr per possibili rimpatri forzati.
Che tali rimpatri siano avvenuti invece è una certezza per il quotidiano Avvenire.
Il giornale cattolico riporta testimonianze di rifugiati eritrei provenienti proprio da Mai Aini, il campo visitato da Unhcr e Arra. Qui, dice la fonte con garanzia di anonimato ad Avvenire, “le truppe eritree hanno ordinato ai rifugiati di mettersi in marcia verso Shiraro, vicino al confine. L’esodo è durato quattro giorni, dal 7 all’11 gennaio. Avrebbero camminato anche donne, anziani e bambini. A Shiraro (ndr, cittadina sul confine tra Eritrea ed Etiopia) i rifugiati sono stati trasportati in centri di permanenza temporanea in tre località eritree, Bademe (contesa con l’Etiopia), Shilalo e Tokombia. Di loro si sono perse le tracce”.
Saranno i ventimila di cui è arrivata notizia all’Unhcr, quelli cui si riferisce Avvenire? Portati a marcia forzata, bambini e donne comprese, verso la regione del Gash Barka? Partendo da Mai Aini, che non è il campo dove sono avvenuti gli incendi, ma quello dove la situazione è migliore. Ventimila fuggiti da Mai Aini che ne contava circa lo stesso numero prima del conflitto? Qualcosa non quadra. Perché se fosse così, l’Unhcr avrebbe visitato un campo vuoto, dicendo invece che lì tutto andava bene.
Solo per inciso, per conoscenza di Avvenire, Badme non è più contesa ma è eritrea dal 2018. Per la verità lo era anche nel 2002, con il riconoscimento di Algeri, che l’Etiopia non ha però mai accettato. È stato Abiy Ahmed a firmare l’accordo di pace,ad Asmara, subito dopo il suo insediamento. Una delle cause dello scontro tra Tplf e governo federale è stata proprio la pace tra Abiy Ahmed e Isaias Afwerki.
Un sodalizio che a molti proprio non è andato giù.
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