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Eritrei, in Etiopia cambia la legge per i campi profughi

Marilena Dolce
05/03/19
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Mai Aini, Etiopia, uno dei quattro campi profughi sul confine con l’Eritrea.
© Ong Gandhi Charity

Eritrei, in Etiopia cambia la legge per i campi profughi

D’ora in avanti gli eritrei nei campi profughi etiopici potranno muoversi e avere un lavoro. Un motivo valido per non proseguire il viaggio verso l’Occidente.

Ad inizio di quest’anno l’Etiopia ha approvato una nuova legge per permettere al milione di rifugiati di varie nazionalità che vivono nei circa 20 campi profughi sul proprio territorio, di lavorare fuori dai campi.

Una differenza non da poco se si ricorda che l’Etiopia accoglie nei campi profughi la più numerosa popolazione di rifugiati, dopo l’Uganda. Persone finora invisibili, senza diritti né libertà.

Siamo felici d’informare che la nuova legge sui rifugiati è stata approvata alla Camera”, ha detto il rappresentante di ARRA, Administration of Refugee and Return Affairs.

“L’adozione di questa legge rappresenta una pietra miliare nella lunga storia di accoglienza di rifugiati da parte dell’Etiopia, giunti per decenni da tutta la regione”, così ha detto Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Alla base del cambiamento, l’adozione a dicembre 2018, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del Global Compact sui Rifugiati. Una normativa per l’inclusione dei rifugiati nel servizio nazionale del paese che li accoglie, sia a livello sanitario, sia per l’istruzione.

Garantendo loro libertà di movimento e il diritto di esistere giuridicamente, che significa poter registrare nascite, morti, matrimoni.

In Etiopia l’Unhcr ha partecipato con ARRA alla stesura di questa nuova legge che sostituisce quella più vecchia del 2004 (Refugee Proclamation) basata sulla Convenzione per i Rifugiati del 1951 e sulla Convenzione dell’Unione Africana del 1969. La vecchia legge limitava alcuni diritti, come la libertà di movimento e l’accesso all’istruzione. Inoltre non prevedeva l’integrazione nella società dove si trovano i campi profughi.  

Ora i rifugiati potranno uscire dai campi profughi, frequentare scuole regolari, lavorare, aprire conti in banca, avere la patente.  

Il capo della Commissione per gli investimenti etiopici, Fitsum Arega ha detto che la nuova legislazione fa parte del Job Compact, un programma da 500 milioni di dollari che mira a creare 100 mila nuovi posti di lavoro, il 30 per cento dei quali destinati ai rifugiati.

In questo modo anche i “rifugiati sosterranno lo sviluppo dell’Etiopia” ha twittato Fitsum Arega.

Una legge che “aiuterà i rifugiati a sentirsi inclusi nella società”, ha detto Dana Hughes, portavoce dell’Agenzia per i Rifugiati della Nazioni Unite per l’Africa Orientale.

“Inoltre”, ha aggiunto, “non avvantaggia solo i rifugiati ma contribuisce all’economia della società. Tale legislazione perciò non è stata solo la cosa giusta da fare ma anche la cosa più intelligente”.

In passato, per gli eritrei, il push factor, per uscire dal Paese e raggiungere prima i campi profughi, poi l’estero, è arrivato dall’Occidente. Anche dall’amministrazione Obama.

Una volta arrivati in Etiopia gli eritrei sono smistati in quattro campi profughi che si trovano nella regione del Tigray, l’altopiano etiopico che confina con l’Eritrea.

Sono i campi di Shimbela, Mai-Aini, Adi Harush ed Hitsats.

Shimbela è il più vecchio, creato nel 2004. Poi nel 2008 è stato aperto Mai-Aini, che accoglie circa 18 mila rifugiati. Quindi, nel 2010, Adi Harus dove sono registrate 29 mila persone. Qui, fino al 2012, si viveva nelle tende,  sostituite ora da case di fango e terra.

Prima della nuova legge dai campi profughi si poteva uscire, legalmente, solo per gravi motivi di salute o per studi universitari. In entrambi i casi era necessario un pass governativo.

Il regolamento OCP, Out of Camp Policy, stabiliva per esempio che, nel caso degli eritrei, tali uscite spettassero a chi fosse nel campo da almeno sei mesi, con una fedina penale pulita e uno sponsor di riferimento nel caso chiedesse di studiare fuori.  

Negli scorsi anni tali permessi sono stati dati a 2.800 eritrei.

Della situazione degli eritrei nei campi profughi ci parla Giancarlo Penza, della Comunità Sant’Egidio.

La comunità Sant’Egidio, come altre organizzazioni religiose e laiche, ha attivato lo scorso anno i primi corridoi umanitari dall’Etiopia verso l’Italia.

I corridoi sono un canale previsto dalla legge italiana per il reinsediamento dei rifugiati.  Gli enti che li attivano devono garantire allo Stato di offrir loro vitto, alloggio e aiuto per integrarsi.

Corridoi umnaitari, arrivo in Italia. Giancarlo Penza, Sant’Egidio, con la vm agli Esteri Emanuela Del Re

Tuttavia i numeri di chi arriva con i corridoi umanitari, rispetto al flusso via mare, (141 mila persone nel 2018), sono molto piccoli.

Le organizzazioni che partecipano a questo progetto possono accogliere, per legge, un massimo di 1.000 rifugiati in due anni.

Per quanto riguarda gli eritrei, comunque, dopo la pace con l’Etiopia, gli arrivi in Italia sono crollati. Non rientrano più nelle prime dieci nazionalità Unhcr.

“La pace tra Eritrea ed Etiopia”, dice Penza “ha avuto un impatto sull’opinione pubblica etiopica molto favorevole. Tutti erano felici, però per adesso il flusso di eritrei verso l’Etiopia non è diminuito”.

IOM (International Organization of Migration)e NRC, Norwegian Refugee Council, dichiarano, relativamente agli arrivi, che la gran parte dei giovani eritrei che si trova nei campi profughi non vuole rimanervi. L’Etiopia è una tappa verso altre mete: Europa, America, Canada. 

“Un cambiamento dopo la pace però c’è stato”, continua Penza, “perché adesso che le frontiere sull’altopiano sono aperte e non più militarizzate, le persone possono entrare in Etiopia liberamente. Il flusso di migranti, perciò, non è ancora terminato. Ancora oggi sembra che circa 200 eritrei in media entrino ogni giorno e alla frontiera chiedano di essere accolti come rifugiati”, spiega Penza.

“Pare” continua “che, per il momento, su questi arrivi Eritrea ed Etiopia non abbiano preso posizioni ufficiali. Subito dopo la pace c’è stata incertezza. Molti rifugiati ci dicevano che non potevano più registrarsi, proprio perché l’ingresso era libero. Per il momento però non ci sono stati cambiamenti”.

Quindi quando gli eritrei passano la frontiera e arrivano in Etiopia, cosa succede?

“Il sistema dei campi profughi è sempre lo stesso. Gli eritrei arrivano a nord del paese, nel Tigray. Appena varcata la frontiera si recano in un campo a circa 50 chilometri, Endabaguna. Qui sono registrati. Si chiede loro identità e provenienza. Poi sono interrogati da un funzionario ARRA. Quindi smistati in uno dei quattro campi per eritrei, tutti abbastanza vicini tra loro.

Tra ARRA e Unhcr c’è una stretta collaborazione.

Finora i rifugiati però hanno vissuto in campi chiusi…

“I campi erano chiusi per essere gestiti in modo rigoroso. Bisogna dire però che i campi profughi non si trovano in zone isolate. Sono lontani dai grandi centri ma vicini a molti villaggi. Forse nei campi gli standard sui diritti sono lontani da quelli cui siamo abituati, però non siamo in Libia…

Nei campi profughi i rifugiati ricevono cibo. Le ong locali si occupano dei giovani. Per esempio insegnano un mestiere. C’è uno sforzo da parte del governo etiopico perché nei campi la gente riesca a vivere. Ricordiamo che l’Etiopia accoglie un milione di rifugiati di cui gli eritrei sono solo una piccola parte.

La vulgata per cui in Italia i migranti stanno meglio degli altri da noi fa ridere, ma in Etiopia è un po’ così. Può essere che se la passino meglio”.

Ora la nuova legge permetterà ai rifugiati di lavorare, una decisione positiva già precedentemente prospettata…

“Molti rifugiati lavoravano illegalmente ad Addis Abeba (ndr, prima dell’approvazione della legge)”. “Per questo motivo” prosegue Penza “l’Unhcr aveva già lanciato programmi di lavoro per i rifugiati. Progetti che potrebbero riguardare 10-20 mila giovani. So questo perché ho partecipato alle riunioni preparatorie, nei primi mesi del 2018.

Un grande problema per il governo etiopico sono proprio i rifugiati eritrei, perché si cerca di bloccarne i movimenti secondari. Una questione etica prima di tutto. Nessuno vuole che fuggano dall’Etiopia per finire nelle mani dei trafficanti…”.

Si diceva però che all’interno dei campi ci fossero traffici di questo tipo…

“Non mi risulta. Per mia esperienza c’è stata sempre severità sui tentativi di corruzione. Vorrei dire che c’è stata una gestione dei campi molto interventista, proprio per controllare i traffici. Un modo per proteggere i rifugiati dal traffico.

Posso fare un esempio. Noi abbiamo iniziato i corridoi umanitari in Etiopia alla fine del 2017. Il primo viaggio è stato preceduto da una lunga permanenza in Etiopia, per spiegare la vicenda a tutte le istituzioni coinvolte. Ricordo che i dirigenti ARRA ci convocarono. Erano diffidenti. Cos’era successo? Si era subito diffusa la voce del progetto. Così, alcuni, dicendo di essere di Sant’Egidio, chiedevano soldi per inserire le persone in una lista corridoi”…

Tornado ai giovani eritrei che arrivano nei campi, sono tutti analfabeti?

“Al contrario. Hanno studiato. Escono da buone scuole. Inoltre ad Asmara c’è una scuola e un istituto di cultura italiana tra i migliori al mondo.

I ragazzi eritrei hanno skills notevoli. Proprio per questo motivo vogliono un lavoro e per il momento vanno all’estero, dove pensano ci sia”.

Secondo il report del 2014 redatto dal Danish Immigration Service, dopo il viaggio in Eritrea ed Etiopia, l’identikit del migrante eritreo è quello di un uomo giovane, sano e scolarizzato.

Sulla scuola l’Eritrea post indipendenza ha puntato molto. Alcuni dati. Nel 1991, prima dell’indipendenza, in tutta l’Eritrea c’erano 471 scuole per 220 mila ragazzi. Una sola Università, ad Asmara. Oggi ci sono 1.540 scuole per 860 mila studenti e 7 college in tutti i capoluoghi.

Una delle poche buone notizie dell’Africa 2018” conclude Penza riferendosi all’Eritrea “è proprio la pace con l’Etiopia”.

Anche per Don Angelo Regazzi, missionario salesiano da molti anni in Etiopia, la pace con l’Eritrea è la grande notizia dello scorso anno.

Addis Abeba, Don Angelo (a destra) con il premier Giuseppe Conte e due dei giovani premaiti per i risultati nei loro studi presso la Scuola Don Bosco

Soprattutto per i giovani che Bosco Children accoglie per offrir loro, al posto della strada, formazione e lavoro.

Con la pace raggiunta, potrebbero i ragazzi eritrei cercare lavoro in Etiopia, anziché emigrare lontano e in modo pericoloso?

“Certo. Anzi vorrei dire”, spiega don Angelo, “che nella scuola di Bosco Children abbiamo già giovani eritrei. Su 150 ragazzi esterni e 100 in convitto, la metà sono eritrei. Diamo loro la possibilità di imparare un mestiere, anche se sappiamo che quasi tutti sono in attesa di partire per Europa, Stati Uniti, Canada. Noi però vogliamo dar loro una scelta. Così diciamo che, con la nuova situazione, sarebbe meglio restassero, pensando poi di tornare in Eritrea. Ormai c’è la pace. In questi mesi abbiamo visto le frontiere aperte, i camion con le merci andare da Addis Abeba ad Asmara, i pullman portare le persone.

Ogni giorno facciamo questo discorso agli eritrei. Diciamo di rimanere, perché possono trovarlo qui il loro futuro”.

E per chi il futuro ce l’ha nei campi profughi?  

“Se fosse per me li eliminerei i campi profughi”, risponde don Angelo (ndr, prima della legge sul lavoro appena approvata). Il campo profughi è un campo di concentramento dove i giovani non imparano un lavoro. E di lavoro in Etiopia ce n’è tantissimo. I giovani pensano di andare all’estero e non capiscono che vi possono trovare molta sofferenza. Non si aspettano lo scontro tra lingue, mentalità, religione, cultura.

Qui, in Etiopia ed Eritrea, potrebbero vivere bene. Lo vediamo con il centinaio di ragazzi eritrei che stiamo aiutando. Vivono bene, sono tranquilli. Speriamo non partano.

 Certo il richiamo è forte…

“Ma ingannevole. Ho visto molti inviare selfie con belle case e bmw, lasciando credere di avere già conquistato tutto. E in molti ci cascano…Per fermare i flussi verso l’Italia, l’ho detto anche al premier Giuseppe Conte durante la sua visita alla nostra missione, bisogna creare lavoro dove vivono.

Uno dei modi, ripeto, è aprire scuole tecniche. Prendere macchinari, ma non di scarto, dall’Italia e mandarli in Africa. Così si fa formazione.

Noi salesiani abbiamo fondato cinque scuole tecniche in Etiopia e una a Dekhamere, in Eritrea, di cui si occupano giovani che avevano studiato qui”, conclude Don Angelo.   

Ciò che va sradicato, e speriamo che questa legge sul lavoro fuori dai campi profughi contribuisca a farlo, è proprio il traffico di uomini.

Dice Stephen Smith in The Scramble for Europe che, entro il 2050, in Europa arriveranno dall’Africa 150, 200 milioni di persone.

Le migrazioni quindi non si fermeranno né usando la forza, né costruendo muri. Neppure chiudendo i porti, che tanto gli aeroporti lo sono già. O negando gli sbarchi, come nel caso dei migranti a bordo della nave italiana “Diciotti”.

Quarantuno di loro, tra l’altro eritrei ed etiopici, chiedono ora i danni allo Stato italiano, assistiti da un avvocato. Forse di un avvocato avrebbero avuto bisogno anche quando erano in Sudan o in Etiopia e persino in Libia. Un professionista che sconsigliasse loro un viaggio dove l’ultimo dei pericoli era rimanere alcuni giorni di troppo su un’imbarcazione italiana.

Per fermare i migranti che, come gli eritrei, non scappano dalla guerra ci vogliono formazione e lavoro, unica via perché abbiano una decent life, anziché promesse.   

Marilena Dolce

@EritreaLive

 

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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