Eritrea, la cooperazione funziona, intervista a Christine Umutoni, Undp
«Il momento dell’Africa è quello attuale», scrive l’economista Dambisa Moyo.
Con quasi un miliardo di abitanti l’Africa è un grande continente che ha bisogno di molte cose, strade, scuole, ospedali, aeroporti, case, automobili.
Dopo la seconda guerra mondiale, mentre parte dell’Africa stava affrancandosi dal colonialismo occidentale, si è aperta un’altra forma di colonialismo, quello degli “aiuti” una carità dai mille aspetti, molti negativi per il paese che riceve.
Oggi si parla di economia sostenibile, di cooperazione tra paesi ricchi e paesi emergenti, di partnership, sempre più storcono il naso davanti al vecchio sistema degli aiuti.
E questo è un bene.
La differenza tra aiuto e cooperazione implica che quest’ultima programmi gli interventi in sintonia con le esigenze, la cultura, il modo di vivere del paese per il quale sono pensati.
Il fallimento degli aiuti che generano corruzione è la loro completa estraneità al territorio, alla gente, alla tradizione. O peggio la loro conoscenza per stereotipi.
Ad Asmara abbiamo intervistato la signora Christine Umutoni, responsabile del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) per farci spiegare come funzioni oggi la cooperazione in Eritrea.
Le risposte che abbiamo ricevuto sul ruolo delle Nazioni Unite nel Paese, sullo sviluppo raggiunto, sugli obiettivi del Millennio, hanno chiarito che l’Eritrea, pur in anni non facili, sta cercando la via giusta per una migliore qualità della vita.
Il lavoro della signora Umutoni è quello di aiutare il Paese a raggiungere obiettivi fondamentali, primo fra tutti l’autosufficienza alimentare, cercata dal paese sin dall’inizio della sua indipendenza, nel 1993.
Le Nazioni Unite hanno sostenuto l’impegno dell’Eritrea verso il raggiungimento di mete importanti: vaccinazioni per i bambini, profilassi antimalarica, salute materna, scolarizzazione diffusa, sviluppo agricolo, sicurezza alimentare, parità fra uomini e donne, maggiore diffusione dell’acqua potabile e altro ancora.
Ormai è chiaro che lo sviluppo economico si raggiunge lavorando non a compartimenti stagni ma insieme. Una migliore scolarizzazione aiuterà la gente a capire l’importanza delle vaccinazioni per i piccoli che non rischieranno più di morire, invasi per trattenere l’acqua piovana e irrigazione dei terreni garantiranno migliori risultati all’agricoltura che riempirà i mercati prima per la sussistenza, poi per l’export che porterà lavoro alla gente.
Questi sono gli obiettivi da raggiungere in un secondo tempo.
In Eritrea le persone non nascondono i problemi del paese, parlano delle cose che non vanno. La generazione dei padri, che ha combattuto per l’indipendenza, vorrebbe un futuro migliore per i figli che spesso non vedono prospettive. Si sente il peso di situazioni internazionali stagnanti che per le persone vogliono dire una faticosa quotidianità.
Nel 2002 l’Accordo di Algeri che avrebbe dovuto chiudere il problema frontiere e territori tra Etiopia ed Eritrea (conflitto 1998-2000) e aprire nuovamente un capitolo di rapporti politici e commerciali, diventa la causa dell’incertezza per molti giovani. Il paese non è in guerra ma neppure in pace, c’è bisogno dei ragazzi per proteggerlo, così l’economia diventa quella di un paese in guerra, senza esserlo. Negli ultimi anni poi le sanzioni, rette dall’accusa di aiuto ai fondamentalisti somali, pur in assenza di prove, hanno congelato definitivamente economia e sviluppo.
Dall’esterno però il paese non sembra immobile e il raggiungimento anticipato, rispetto alla data del 2015, dei tre obiettivi sulla salute ne è la dimostrazione.
Questi obiettivi nascono nel 2000 con la Dichiarazione del Millennio, un impegno sottoscritto dai 191 paesi che fanno parte dell’ONU e che lavorano per raggiungere, entro il 2015, gli otto traguardi indicati per un mondo migliore.
Una bella sfida per i paesi in via di sviluppo.
«L’Eritrea oggi è tra i primi stati africani ad aver eliminato quasi completamente la malaria» dichiara durante l’intervista Christine Umutoni. Non solo, ha ridotto sensibilmente la mortalità infantile, aumentato il benessere e la sicurezza delle donne in gravidanza, sconfitto la diffusione del virus hiv e dell’aids.
Tutto ciò “portando” la sanità verso la gente, anche quella che vive distante dagli ospedali, raggiungendo con postazioni mobili e personale paramedico le etnie nomadi, afar e rashaida.
«Noi abbiamo notato un buon numero di progressi» dice Christine Umutoni «questo è il motivo per cui abbiamo deciso di chiedere alla comunità internazionale che si continui ad aiutare l’Eritrea che, per un certo periodo di tempo, non ha avuto un aiuto finanziario sufficiente alla sua crescita».
A fine 2013 è stato siglato con il governo eritreo un nuovo rapporto di cooperazione che proroga gli investimenti fino al 2016: «se avremo di più, potremo fare di più» dice la responsabile UNPD.
« In questi anni abbiamo avuto livelli minimi di corruzione. Ogni volta che iniziamo un progetto, che si tratti di una diga, della distribuzione di cibo ai bambini, di zanzariere per la malaria, quello che si paga con quel denaro è quello che succede. Non vedrete nessuna delle cose acquistate finire al mercato, non le vedrete dirottate in altro modo».
Mentre ascolto le sue parole, penso che tutto questo è semplice ma non ovvio.
In altri stati africani, stando alle dichiarazioni di alcune ong, capita che carrozzelle fatte arrivare per alleviare le sofferenze degli invalidi di guerra si ritrovino, smontate, al mercato per essere utilizzate come bancarelle ambulanti.
Furti e abusi diventano ordinaria amministrazione quando non c’è condivisione d’intenti, di obiettivi.
Questo in Eritrea non accade. Non perché tutti la pensino nello stesso modo, anzi ma perché, per tutti, l’identificazione con il Paese (e con le sue attuali sofferenze) è molto forte.
Spesso mi chiedono se l’Eritrea sia un Paese sicuro. Lo è. Non perché esista uno stato di polizia ma perché c’è, molto forte, il senso della solidarietà. Durante i miei viaggi non mi è capitato di assistere a nessun borseggio, a nessun furto, a nessuna rapina. Il motivo? Penso sia una diffusa empatia, che fa condividere situazioni, aspettative, beni.
Capisco che sembri retorico, però in Eritrea ci sono abitudini antiche che abbiamo dimenticato. Si fa del bene non con l’invio di un sms da 2 euro ma portando tutte le sere, senza pubblicità, un piatto caldo al vicino che attraversa un momento difficile.
Mentre chi parte, per cercare fortuna all’estero, lascia ai parenti l’uso della propria casa, nella quale ritorna, in estate, con i soldi e il sorriso del beles.
Forse questa mentalità è il motivo per cui, come dice Christine Umutoni: «ogni dollaro investito nel Paese, si sa esattamente dove va a finire. Questa è la ragione per cui è importante investire e aiutare la gente eritrea che ha questa cultura dell’orgoglio, dell’amore per la propria nazione. Una cultura che fa realizzare le cose previste nel piano di lavoro, come sono state pianificate. In altre parole questo è uno dei paesi africani dove esiste un riscontro tra quanto entra, quanto esce e il collegamento con i risultati».
Al termine dell’intervista la signora Umutoni dichiara il suo affetto verso l’Eritrea, la sua felicità per i buoni risultati raggiunti, la sua speranza di riuscire a fare di più.
E noi glielo auguriamo di cuore.
MARILENA DOLCE
@EritreaLive
Lascia un commento