Dall’Eritrea verso l’Europa, il pericoloso viaggio dei migranti
Dall’Eritrea verso l’Europa, la Procura di Trapani indaga su Mussie Zerai
Qualche giorno fa il sito Habeshia, organizzazione umanitaria di cui è presidente padre Mussie Zerai ha pubblicato un comunicato stampa, “la solidarietà non è un crimine”.
In esso padre Mussie Zerai scrive che “nella mattinata del 7 agosto, mentre rientrava da un viaggio di lavoro” ha ricevuto l’informazione che la questura di Trapani gli avrebbe notificato l’avviso di un procedimento per conto della locale procura”.
Questo significa che la Procura di Trapani sta indagando, tra gli altri, anche su padre Mussie. La contestazione riguarderebbe le sue segnalazioni sull’arrivo dei migranti. Gli si chiede, inoltre, se come dicono alcuni testimoni, avrebbe partecipato a una “chat segreta”, unitamente ai capitani di altre navi umanitarie.
Secondo le testimonianze raccolte finora, il sacerdote avrebbe ricevuto comunicazioni dai migranti che si trovavano a bordo dei gommoni organizzati dai trafficanti. Il suo ruolo sarebbe stato quello di segnalare giorno, ora e posizione delle imbarcazioni da soccorrere.
“Immagino che sia un provvedimento ricollegabile”, dice infatti nel comunicato “all’inchiesta aperta sulla Ong Jugend Rettet. Se di questo si tratta, posso affermare in tutta coscienza di non aver nulla da nascondere e di aver agito sempre alla luce del sole e in piena legalità”.
Alla luce del sole, di sicuro.
Infatti i giovani del Corno D’Africa, costretti ad emigrare senza visto, negato loro da tutte le ambasciate occidentali, conoscono molto bene il nome di padre Mussie Zerai.
Un prete ma soprattutto un attivista, che dal 2009 non fa mistero della sua missione di aiuto verso i più deboli. Un aiuto perché possano abbandonare i loro paesi d’origine e raggiungere l’Europa.
Proprio su quest’attività si è basata, nel 2015, la sua candidatura per il premio Nobel per la pace.
Il 3 ottobre 2013 è la data tristissima del naufragio davanti all’isola di Lampedusa. Quel giorno sono morti moltissimi ragazzi eritrei. Altri, seconde generazioni che vivono in Italia, sono accorsi per aiutare i vivi.
È una di loro a dirmi che molti dei ragazzi che hanno perso la vita in mare venivano dall’Eritrea. Si erano imbarcati in Libia, paese disastrato da cui si parte per raggiungere l’Italia.
Il 3 ottobre a Lampedusa, mi spiega, erano già arrivate diverse imbarcazioni.
Quella che non ce la fa giunge, come tutte le altre, vicino all’isola. Il “capitano” vede le luci e spegne il motore. Tutti aspettano di essere soccorsi. Qualcosa però va storto. Due barche li avvistano ma non si fermano. Il gommone comincia a imbarcare acqua. Il capitano imbeve uno straccio nella benzina e lo incendia per segnalare la propria posizione. Un lampo, il fuoco, la paura. Le persone si spostano per allontanarsi dalle fiamme, la barca si inclina e si rovescia. Affogano in trecento. Si salvano i ragazzi che, sapendo nuotare, si buttano in acqua per raggiungere la riva.
A lei molti dei giovani eritrei che incontra a Lampedusa, raccontano le proprie storie, a volte simili, a volte molto differenti. Tutti le fanno il nome di un prete, don Mussie Zerai. È lui, dicono, che tanti conoscono.
Il problema per gli eritrei è che l’unica via per uscire dal paese è quella, pericolosissima, del viaggio via deserto prima, mare poi. Così finiscono preda di trafficanti, smuggler, scafisti.
Come ripete spesso nei suoi interventi il sociologo Maurizio Ambrosini, retorica a parte, il lavoro dei contrabbandieri copre il vuoto delle istituzioni per una richiesta esistente.
Le persone in fuga dalle guerre o dalla povertà, sono disposte a pagare pur di mettersi in salvo, pur di trovare, lontano da casa, una vita che sperano migliore. Per questo rischiano. Per questo su di loro c’è chi si arricchisce.
Dopo il disastro di Lampedusa, l’Italia vara l’operazione Mare Nostrum. Il costo troppo alto e l’accusa di pull factor bloccheranno l’intervento italiano. L’Europa interviene con l’organizzazione Frontex. Triton, perciò, sostituisce Mare Nostrum. I costi dei salvataggi in mare si abbassano drasticamente ma cambia anche lo scopo. Triton, infatti, ha come principale obiettivo il pattugliamento in difesa delle coste, dei confini europei. Quando una barca lancia l’allarme, Triton, se richiesto, partecipa al salvataggio SAR, (Search and Rescue) con la Guardia Costiera cui spetta tale compito.
Nel 2013, durante un incontro alla Camera, padre Mussie Zerai racconta il suo impegno, in corso già da quattro anni, per salvare i migranti. A chiamarlo, spiega, sono molto spesso gli eritrei sequestrati prima ancora di arrivare a imbarcarsi. I trafficanti, sotto minaccia, intimano loro di chiamare i parenti e farsi inviare altri soldi. Lo scopo è poter proseguire il viaggio.
Secondo Mussie Zerai gli eritrei sono costretti ad andarsene dal loro paese perché “il problema del confine [ndr, tra Eritrea ed Etiopia] è diventato un alibi per il regime per tenere il paese totalmente militarizzato. Quindi, conclude, l’unico futuro per i giovani eritrei è quello militare. Ecco perché scappano.
Le alternative ai pericolosi viaggi in mare, secondo lui, ci sarebbero. Da un lato la creazione di nuovi campi profughi in Etiopia, sul confine eritreo, dall’altro l’istituzione di corridoi umanitari. I campi profughi, spiega, aiuterebbero “la maggior parte dei rifugiati che sono giovanissimi” e che in Etiopia troverebbero scuola e lavoro.
In realtà, come sa chi ha visitato recentemente l’Eritrea, studio e lavoro sono garantiti anche lì.
La scolarizzazione è gratuita, obbligatoria e diffusa ovunque, fino a 17 anni, poi c’è la biforcazione. I migliori proseguono al College, per gli altri c’è un corso di formazione. La carriera militare è una terza scelta, non obbligatoria. Formazione e lavoro sono parte del servizio nazionale, istituito nel 1991, dopo l’indipendenza. L’Eritrea è un paese che ha combattuto trent’anni (1961-1991) per conquistarla l’indipendenza. Subito dopo ha dovuto ancora combattere per difendersi contro le rivendicazioni etiopiche (1998-2000). Una guerra terminata con l’Accordo di Algeri (2002) che stabilisce che i territori contestati sono eritrei. L’Etiopia però li occupa ancora. L’Eritrea dunque è un paese in pace, con un’economia e una società nell’orbita della guerra.
Una situazione che don Mussie Zerai, nativo dell’Eritrea, conosce molto bene.
I giovani abbandonano un Paese che ha la loro età. Un Paese povero, soggetto a sanzioni dal 2010. Accusato di aiutare il terrorismo somalo, accusa mai provata, che ha creato uno stallo che rallenta lo sviluppo. Motivo per cui i ragazzi, con scarse prospettive di benessere europeo, cercano all’estero quello che la situazione internazionale finora ha boicottato in Eritrea.
Nel 2012 tra l’altro, l’ex presidente americano Barack Obama, durante una conferenza alla Fondazione Clinton, garantisce il proprio sostegno alle organizzazioni umanitarie che aiutino i giovani eritrei a uscire dal paese.
Così in quegli anni e fino al 2015, si ha il picco di arrivi eritrei verso l’Europa. Oggi non è più così. L’Eritrea non è neppure tra i primi 10 paesi da cui si emigra, secondo dati recenti Unhcr.
L’emigrazione, però, allargata a molti altri paesi africani, è un campanello d’allarme per un’Europa preoccupata e impreparata per quella che continua a definire “un’emergenza”.
Il viaggio in mare dei migranti diretti verso le coste italiane parte quasi sempre dalla Libia.
Terminata la missione di Mare Nostrum, su cui vegliava la Marina Italiana, ridimensionato il ruolo di Triton, ora i salvataggi sono fatti per lo più dalle navi delle ong.
Sono loro che accolgono a bordo, salvandoli dal naufragio, i migranti, futuri richiedenti asilo in Europa.
Lo scorso novembre la Procura di Trapani ha iniziato un’indagine su questi viaggi, sul ruolo e sul modo in cui le navi private operano in mare.
Per questo sono state acquisite le testimonianze di due uomini di una ong tedesca, Jugend Rettet. Sono loro che hanno parlato dell’esistenza di una chat riservata, cui avrebbe partecipato anche don Mussie Zerai.
Ecco il perché della notifica ricevuta da padre Mussie.
Ora, probabilmente consigliato dai suoi legali, don Mussie non parla con la stampa. EritreaLive ha chiesto un’intervista, per il momento rifiutata.
Le dichiarazioni pubbliche sono state affidate a un lungo e circostanziato comunicato stampa.
Qui si spiega il modus operandi.
Mussie Zerai dice di aver sempre “inviato segnalazioni di soccorso all’Unhcr e a ong come Medici Senza Frontiere, Sea Watch, Moas e Watch the Med”. “Prima ancora di interessare le Ong” continua “ogni volta ho informato la centrale operativa della Guardia Costiera italiana e il comando di quella maltese. Non ho invece mai avuto contatti diretti con la nave della Jugend Rettet, chiamata in causa nell’inchiesta della Procura di Trapani, né ho mai fatto parte della presunta chat segreta di cui hanno parlato alcuni giornali: le mie comunicazioni sono state sempre inoltrate tramite un normalissimo telefono cellulare”.
La domanda che ci si pone è, come mai Mussie Zerai riceve le telefonate sul suo cellulare/satellitare? Come fanno ad averlo i “capitani” delle imbarcazioni di fortuna? Perché lo chiamano?
Chi ce l’ha fatta ha raccontato che a guidare le imbarcazioni fino al momento del salvataggio è spesso uno di loro che in quel modo si paga il “biglietto”. Il suo compito è anche chieder aiuto, appena fuori dalle acque libiche.
Sono queste le chiamate che ha ricevuto Mussie Zerai, per poi girarle, a sua volta, con coordinate precise?
Non si può ignorare che i migranti che salgono sui gommoni, sulle imbarcazioni a perdere che lasciano la costa libica, siano “passeggeri” di un pessimo traffico di uomini. L’ultima tappa, certo la più importante, è quella di essere soccorsi in mare.
Un compito svolto prima da Mare Nostrum, poi da Triton, ora da numerose ong.
Le richieste di aiuto, specifica il comunicato di padre Mussie, arrivano da imbarcazioni non in partenza dalla Libia ma da “natanti in difficoltà, al largo delle coste africane, al di fuori delle acque territoriali libiche e comunque dopo ore di navigazione precaria e pericolosa”. “Interventi”, continua “rivolti a salvare vite umane. Interventi concepiti nel medesimo spirito dell’operazione Mare Nostrum”.
Il problema è che dietro l’operazione Mare Nostrum c’era il governo italiano. Ora al largo della costa libica, nelle acque internazionali ci sono navi private.
Animate, fino a prova contraria, dalle migliori intenzioni, capaci anche di una solidarietà costosa, di cui si fanno pienamente carico.
Sono salvataggi “privati” che innescano il timore di accordi illeciti con gli organizzatori delle partenze.
Un’indagine della magistratura potrà chiarire competenze, responsabilità, buona fede.
Del resto l’agenzia Habeshia e tutti coloro che per lei lavorano, hanno ricevuto in questi giorni l’appoggio di molte e importanti istituzioni e di diversi organi di stampa.
Loro stessi, oltre ai comunicati, hanno rilasciato dichiarazioni ai media con cui da sempre collaborano.
Sembra perciò che non siano soli e abbiano tutte le carte in regola per spiegare il proprio operato.
Dovrebbero anzi essere ben lieti di avere l’occasione di distinguersi, se necessario, da altre organizzazioni meno cristalline.
Proprio per difendere la solidarietà, quando non è un crimine.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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