Viaggio in Eritrea,Touch the Future (parte prima)
Asmara, la capitale
La prima volta che si arriva in Eritrea, atterrando all’Aeroporto Internazionale della capitale Asmara, sorprende il clima frizzante, l’aria fresca, “l’eterna primavera” dell’altopiano, indizio di un’Africa lontana dall’immaginario esotico mediterraneo.
Passeggiando per il centro colpisce immediatamente l’impronta di «dignità urbana» voluta dai coloni italiani per questa città costruita a 2.400 metri di altezza, lontana dalla calura di Massaua, primo insediamento militare.
Dunque Asmara, un tempo quattro villaggi, diventa, pian piano, urbe alberata, ricca di piazze e servizi, mercati coperti, portici, costruzioni eleganti e funzionali «per il decoro del quartiere europeo» per incentivare l’arrivo di quella piccola borghesia italiana che aprirà botteghe, officine, laboratori, ristoranti, pasticcerie, esportando un po’ “d’Italia lontano da casa” e dando un volto conosciuto a un’Africa misteriosa. Così Asmara diventa sempre più simile a una città italiana: Bar Impero, Rosina, Zilli, Moderno, Tre Stelle dove, ancora oggi, per contagio nostrano, si gioca a boccette.
L’italiano resiste. Tutto ciò che è stato importato dal colonialismo parla la nostra lingua: la segnaletica, dosso, rallentare, le indicazioni, uscita, il caffè, espresso, lungo, macchiato, la passione per la bicicletta, l’incitamento nel gioco, forza, bravo. Gli aneddoti si sprecano, racconta Silla, una giovane donna eritrea, che cucchiaio, in tigrino, la lingua dell’altopiano, si dice manca, perché, si narra, la signora italiana si lamentasse con la domestica eritrea, che a tavola mancasse sempre il cucchiaio. Un oggetto sconosciuto che “è stato nominato”.
Il colonialismo italiano, nel ricordo degli eritrei più anziani, non è stato il peggiore. Storicamente, ne ha frenato l’autonomia e sicuramente la scolarizzazione non è stata un obiettivo principale, però l’apprendistato ha formato un popolo che ha fatto del “riciclo” un’arte, oltre che una necessità. Medeber, è il quartiere del Caravanserraglio dove, insieme con l’odore intensissimo del berberè (peperoncino), tutto riprende vita, si ricicla, si aggiusta. Nuovo e vecchio si mischiano.
Del resto il primo colonialismo, quello di un’Italia da poco unita, emigrando, esportava lavoro, la voglia di fare, d’intraprendere, senza l’ozio del latifondista, con la necessità di avere “garzoni”.
Anche i nomi delle strade cambiano, seguono il corso della storia, conquistano l’indipendenza. In Nakfa Avenue, ex Corso del Re, una villa, costruita in fretta, prima del palazzo del Governatore, per ospitare le maestranze al lavoro, oggi è l’Albergo Italia. Dalle sue persiane verdi filtra una luce dolce, accompagnata dal suono delle campane e, solo la voce del muezzin, che dalla vicina moschea chiama alla preghiera, interrompe un flash sulla campagna umbra o toscana.
Eritrea, Midri Geez, “terra dei liberi”, come si chiamava prima che l’Italia di Francesco Crispi, nel 1890 introducesse l’erytros, rosso, la sfumatura del mare, il colore della terra ferrosa dell’altopiano, del sangue versato dai molti, non solo combattenti, che hanno dato la vita per conquistare la libertà.
Libertà: la parola che dà forma e sostanza alla storia eritrea, di cui si parla per spiegare vicende e punti di vista diversi da quelli occidentali, spesso incompresi da media e giornalisti. Oggi ha vent’anni la generazione nata con l’indipendenza, nel 1993, che non ha dovuto combattere per conquistarla. Questi ragazzi non sono diversi, nelle aspettative e nei desideri, dai coetanei occidentali. Oltre alla libertà, chiedono benessere “qui e ora”. Il tempo dell’attesa può essere lungo per chi presta servizio civile e vive stentatamente. Allora si lascia il Paese. Si sceglie l’Europa, l’America, il Canada, qualche volta per studio, chiamati dalle Università, altre volte “via cammello”, illegalmente, cadendo preda del mercato di uomini. L’Eritrea conosce questo dramma, non nasconde la testa sotto la sabbia. L’alternativa è creare maggior benessere, ma come?
Scongiurata la fame, combattuta la povertà con scelte lontane dalla “carità” dell’aiuto, l’Eritrea in questi vent’anni ha bonificato terreni arsi dall’abbandono, minati dalla guerra, senza toglierli all’agricoltura per offrirli alle multinazionali. Ha raggiunto la sicurezza alimentare.
In tutto il paese, non solo ad Asmara i mercati sono pieni, non si muore di fame. Per i più poveri i prezzi sono calmierati (scontentando, ovviamente, chi vende), si fa la fila ma si comprano carne, frutta, verdura. Gli occidentali storcono il naso, però è molto. Il passo successivo sarà l’export, la sicurezza dell’energia, lo sfruttamento delle risorse minerarie, la costruzione e “ricostruzione” di parti del Paese. Tappe importanti, difficili da bruciare senza bacchette magiche e molti soldi.
Tuttavia i rapporti internazionali non fanno sconti all’Eritrea mettendola sempre in fondo alle classifiche. I numeri penalizzano un Paese dalla storia giovane, travagliata, ambìto per l’accesso al mare, più piccolo, con i suoi cinque milioni di abitanti della vicina Etiopia, baluardo filoamericano. La “questione etiope” è la spina nel fianco dell’Eritrea, nodo irrisolto che ha frenato uno sviluppo che tutti vogliono, a cominciare dagli eritrei all’estero, arrivati per capire, durante le recenti conferenze, (agosto e dicembre 2012) come investire nel Paese, pronti a dare fiducia, a credere nelle sue risorse. Per ritornare.
Tzegai Mogos, vice segretario National Confederation Eritrean Workers, spiega,
«La guerra del 1998 ha interrotto la crescita del Paese. Badme, il territorio conteso, è eritreo da sempre, non etiope. Nonostante la risoluzione delle Nazioni Unite (ndr Accordo di Algeri del 2002) stabilisca che Badme è zona eritrea, l’Etiopia non ha abbandonato il territorio. Cosa significa? Questa è la situazione che il nostro Paese sta affrontando, però la stampa estera scrive che è l’Eritrea a creare problemi. L’Etiopia deve osservare gli accordi internazionali, ritirarsi dai nostri territori, poi si potrà dialogare. Noi riteniamo che il nostro piccolo Paese sia come “il fiore” delle canzoni rivoluzionarie che può germogliare e crescere in quest’arida terra solo con la pace, con la convivenza civile tra i popoli».
Il centro di Asmara ha conservato il volto moderno di fine Ottocento voluto dai progettisti italiani, più geometri che architetti, amato e restaurato dagli eritrei perché simbolo della propria storia. Sicuramente non c’è indifferenza verso l’estetica urbana. Si racconta, con ironia tagliente, la terribile battuta sui “grattacieli coreani” di Massaua, così brutti che, durante i bombardamenti, gli etiopi hanno preferito risparmiarli.
Fino agli anni Quaranta ad Asmara si costruiscono cinema, ville, residenze, alberghi razionalisti, palazzi liberty, eclettici, decò. Pochi di grande rilevanza artistica, tutti di eccellente livello, molto spesso sperimentazioni stilistiche impossibili in patria, come dimostrano le ali aperte della futurista officina Fiat Tagliero, che offusca l’adiacente I.R.G.A, Industria Riparazioni Gomme Asmara, meno famosa, altrettanto utile.
Gli acronimi, molto cari all’Italia di quegli anni non si contano: S.A.B.A, Stabilimenti Africani (o Società Asmarina, nessuno ricorda con esattezza) Bottiglie Affini che imbottiglia dal 1938, l’acqua sorgiva della Fonte Mai Dongollo. Luigi Grimaldi, asmarino e italiano spiega: «oggi vi lavorano circa settanta persone, i più anziani hanno cominciato da ragazzini nella fabbrica del Conte che produceva bibite, gingerino Recoaro ed esportava in Italia l’acqua radioattiva».
Gli italiani, per antonomasia, diventano siciliani, la comunità più numerosa. Si aprono negozi le cui insegne, ancora esistenti, indicano: Ottica Bini, Merceria, Tutto per la Gomma, Tutto per la Casa e l’Industria, Colorificio, Calzature, Panificio, Macelleria, Farmacia, Barbiere, sorgono fabbriche, il Cotonificio Barattolo, il Liquorificio Emiliano Asmara, ovviamente L.E.A
Bruno Scoma, ottico del negozio Bini, una graziosa villetta, un tempo casa-bottega, racconta che il proprietario, Signor Bini, aveva iniziato producendo calzature e il famoso sandalo di gomma, shidda, diventato simbolo dei tegadelti, i combattenti, della loro forza con poco. I sandali, opera neorealista, tributo della città, si trovavano fino a qualche anno fa in una piazza centrale. Adesso sono in restauro, se si chiedono notizie la battuta è veloce «chissà, forse saranno sostituiti dalle Nike, più moderne».
Girando per il centro consiglio di entrare nel negozio di Giovanni Mazzola, il sarto di Asmara, esperto di botanica, campione di ciclismo e atletica (ha portato in trionfo Abebe Bikila durante le Olimpiadi del 1960) che taglia impeccabili abiti in mohair «senza cuciture incollate» dice, come gli hanno insegnato a bottega in un’ Italia che, nonostante tutto, non ha mai smesso di amare.
Le attività cominciate con la fondazione della colonia, proseguono fino all’arrivo degli inglesi, poi ancora con l’annessione etiope (1962), per fermarsi negli anni di Menghistu che nazionalizza scuole, fabbriche, attività commerciali, svaligia biblioteche e chiese, azzera tutto ciò che era stato costruito, portando in Etiopia le attività produttive e lasciando all’Eritrea gusci vuoti.
È il momento della diaspora. Chi può abbandona il paese. Molti rimangono, «sposano la sofferenza» dice Derres Araia, ex combattente, continuano a lottare per liberare il paese che il 24 maggio 1993 conquisterà l’indipendenza, diventando il 53° stato africano con il referendum più affermativo della storia, (99,8% a favore), «equo e corretto», riconobbe l’Onu. Mi raccontano che tutti volevano l’indipendenza e delle lacrime di qualche anziano che si era confuso a votare.
Asmara però non è solo centro, quartiere dei villini. Esistono due città contrastanti, Harnet Avenue, la vetrina occidentale, lo shopping, le pizzerie, i caffè e la periferia, un tempo, Aba Shawl, “senza nome”. Quella alla quale i coloni non erano interessati e che non ha avuto un “piano regolatore”.
Ma anche le periferie non sono uguali.
A Ghezza Tanika, quartiere con case di pietre, “villaggio abissino” come lo chiamano i bianchi, arrivavano gli immigrati etiopi più poveri alla ricerca di un lavoro; spesso facevano gli spazzini, usando le taniche, da cui il nome, per raccogliere i rifiuti e, qualche volta, gli insabbiati, europei senza lavoro che decidono di rimanere in Africa.
Periferia diversa, Campo Azzurro, dal colore dei tucul, ora Haz Haz, dove vivono i discendenti degli ascari, (soldati nell’esercito coloniale italiano) gente fiera, orgogliosa del quartiere che durante il Carnival, per la festa dell’indipendenza, sfila con il proprio carro, per allontanare lo spettro banlieue. I tucul mi spiega un signore che vi abita sono sessantadue in tutto, passati in eredità dagli ascari ai discendenti e, chi aveva un grado più alto, i balucbasci, sottufficiali, ne possedeva due o tre.
Simbolo della distanza dell’Eritrea dalla guerra è il “cimitero dei carri armati”, scultoree pareti stratificate di ex materiale bellico ereditato dal nemico, vecchie scalette d’aereo, bus milanesi inconfondibilmente arancioni, una “miniera di ferro” conservata per scopi civili.
Nella stessa zona, al mattino presto, un grande spiazzo di terra rosso fuoco, è la scuola guida della città dove gli allievi, a bordo di Fiat Seicento ormai d’epoca, imparano i rudimenti, girando, svirgolando, curvando, attorno a paletti piantati a terra.
Non molto distante, il cimitero italiano, testimonianza privilegiata di antichi valori, parole dolci incise sul marmo che raccontano vite nella “maliosa terra d’Africa” a volte accettata “al fine sublime di creare crescente benessere e sereno avvenire, sognando la patria e il conforto degli affetti.” Ben diversi i cimiteri di Keren voluti per ricordare i soldati morti nell’ultimo conflitto, inglesi, italiani e, purtroppo, “ascari ignoti”, seppelliti senza un nome.
Il viaggio continua verso il bassopiano.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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