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Usaid fuori dall’Africa, Eritrea, un caso anomalo

Marilena Dolce
29/03/25
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Eritrea, Asmara, Harnet Avenue Un caso “anomalo”: l’Eritrea, unico paese  in Africa da sempre senza Usaid.

Che per l’Africa l’aiuto occidentale non funzionasse era cosa nota da tempo.

Tuttavia la scossa forte è arrivata dal presidente americano Donald Trump che, all’inizio del mandato, ha detto di voler far pulizia nel mondo degli aiuti.

E così è stato. Prima vittima eccellente Usaid, organizzazione americana per la cooperazione internazionale, fondata nel 1961 da John F. Kennedy, presente in più di cento Paesi. Nel 2024 Usaid, aveva un budget preventivato di circa 42,8 miliardi di dollari.

Lunedì 10 marzo il segretario di stato Marco Rubio ha dichiarato che in sei settimane l’amministrazione Trump ha tagliato l’83 per cento di Usaid, passando la restante quota al dipartimento di Stato. “Eliminati 5.200 contratti costati miliardi di dollari, che non hanno servito, e in alcuni casi hanno persino danneggiato gli interessi nazionali degli Stati Uniti”, ha scritto su X il Segretario di Stato. Le motivazioni ufficiali fornite dall’amministrazione riguardano l’eliminazione di sprechi e l’obiettivo di utilizzare in modo più efficiente i fondi pubblici, per promuovere gli interessi americani.

In termini di occupazione, benché non ci siano dati certi, si ritiene che negli Stati Uniti siano stati licenziati a Washington 1.600 funzionari Usaid, più altri 8.000 nell’indotto e 5.000 all’estero. Altri tagli di fondi americani per organizzazioni attive in Africa, coinvolgono l’International Development Association (IDA), l’African Development Found (AfDf) e il World Food Program (WFP).

Così, mentre il terremoto che ha travolto Usaid è ancora in corso, il Financial Times pubblica un articolo sul “paese che ha cacciato Usaid vent’anni fa”, ovvero l’Eritrea. Due decenni dopo sono altre infatti le nazioni africane a dover fare i conti con il taglio degli aiuti. Ma come se l’è cavata l’Eritrea che l’anno scorso è stata l’unica nazione africana a non ricevere aiuti dagli Stati Uniti?

Nello stesso articolo il Financial Times riporta stralci di un’intervista rilasciata dal presidente Isaias Afwerki prima dell’espulsione, nel 2005, di molte ong e agenzie UN “Se hai bisogno di qualcosa e nessuno te lo dà”, dice il presidente, “ti sforzi ancora di più per farcela da solo”. E proprio questo sforzo per far da sé, è la via indicata adesso da molti intellettuali e politici africani, dopo il taglio degli aiuti.

Dice Arikana Chihombori-Quao, ex ambasciatrice dell’Unione Africa negli Stati Uniti, riferendosi al lavoro di Usaid e in generale delle Ong in Africa, che sono “lupi travestiti da agnelli”. Sulla carta, spiega, tutto sembra buono, poi però, a distanza di tempo, quali sono i risultati? Se si guardano i due campi dove maggiormente operano, sanità e istruzione, in nessuno dei due si sono visti miglioramenti.

Nel marzo 1998, poco prima dello scontro con l’Etiopia, il Los Angeles Times intervista il presidente dell’Eritrea, allora considerato dall’America un esempio di eroe combattente, un politico visionario, “l’onda del futuro” per la “storia di successo”, del suo Paese. Così si legge nell’articolo che ricapitola come l’Eritrea, avesse combattuto da sola, unita e solidale, cementando etnie e religioni nell’ideale di nazione.

Fin dall’inizio l’Eritrea si pone su un piano diverso, cominciando proprio dal rifiuto degli aiuti. Nonostante il paese dopo trenta lunghi anni di combattimenti, dal 1961 al 1991, sia distrutto, Isaias dice subito che l’aiuto non deve far parte nel loro vocabolario.

“Le elemosine della comunità internazionale per avere cibo e quant’altro, ti paralizzano”, spiega nell’intervista, “costringendoti a vivere per sempre di aiuto, pensando che la comunità internazionale sia responsabile per te”. La strada “anomala” che l’Eritrea imbocca fin dall’inizio è quella della self reliance, del far da sé, come ricordato ora dal FT.

L’aiuto, ripete Isaias, è una droga che alla fine ti blocca. Al massimo dovrebbe essere un’aspirina, un farmaco temporaneo di cui non abusare. “Meglio prendere una medicina amara per curare la malattia piuttosto che sviluppare una dipendenza”, concludeva il presidente Isaias già nel 1998.

Parole che tanti anni dopo ritornano nei commenti sulla chiusura di Usaid, “che l’Africa non riceva più aiuti in un colpo solo o abbia il metadone, questo è ora il problema”, dice al FT il funzionario di un istituto finanziario. Mentre Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice dell’Organizzazione generale del commercio ed ex direttrice generale della Banca Mondiale, lancia un appello perché i paesi coinvolti ricevano finanziamenti ad interim, per evitare il vuoto soprattutto nell’assistenza sanitaria. Sollecitando comunque i paesi africani ad assumersi le proprie responsabilità.

L’aiuto esportato finora in Africa è l’opposto della partnership, delle relazioni win-win, degli accordi tra pari.

E alla partnership l’Eritrea ha sempre creduto. Ora, infatti, è in prima linea con i progetti del Piano Mattei lanciato a Roma, durante Italia-Africa nel 2024. Se da un lato non spetta ad altri, disse a suo tempo il presidente Isaias, dettare gli obiettivi per il nostro Paese, allo stesso tempo siamo pronti a sederci a un tavolo per stabilire con i partner, capacità, risorse e competenze necessarie per la crescita del Paese.

Nel 2010, durante una lunga intervista al settimanale italiano Panorama, sempre il presidente Isaias, spiegò ancora una volta il punto di vista eritreo sugli aiuti. “Noi vogliamo costruire una nazione, un’economia, un governo. Se vogliamo costruire scuole, strade, servizi, dobbiamo avere un piano per ogni settore e per ogni regione del Paese. Nessuno può dirci di abbandonare i nostri programmi per seguire i loro…molte Ong hanno detto che dovevano realizzare i loro programmi a prescindere dai nostri. Per questo se ne sono andate”.

Sulle agenzie Onu, Isaias è, fin da allora, ancora più esplicito, “Quanti così detti esperti sono impiegati da queste agenzie in Africa? E quanto denaro è speso da tali agenzie? È devastante perché dove sono loro non è possibile sviluppare le capacità e le istituzioni locali. C’è bisogno di addestrare i tecnici locali ma non è possibile perché i tecnici arrivano dall’estero. Si potrebbe impiegare manodopera locale invece si assume gente da fuori…”.

A pensarla così è anche l’economista Dambisa Moyo che nel 2009 scrive Dead Aid, libro in cui spiega perché gli aiuti occidentali non fanno bene all’Africa. “Perché”, chiede, “la maggior parte dei paesi dell’Africa sub sahariana non esce dal circolo vizioso corruzione, malattia, povertà e dipendenza dagli aiuti, nonostante sia l’area che ne riceve di più, almeno dal 1970”. La risposta è che la povertà dei paesi africani è causata proprio dagli aiuti. Il concetto di quid pro quod è applicato agli aiuti. I Paesi che li ricevono devono spenderli per merci e servizi provenienti dai paesi donatori. Anche il personale arriva dai paesi donatori, persino quando nel paese povero esistono persone adatte all’incarico. Il donatore può scegliere l’ambito e il progetto d’investimento, inoltre gli aiuti arrivano purché il beneficiario accetti una serie di misure politiche ed economiche che piacciono al donatore.

Torniamo all’articolo del FT che si chiede come sia andata all’Eritrea che ha messo in pratica il suo “cocciuto spirito di autosufficienza”. La risposta è che “se l’è cavata bene negli ultimi due decenni, come altri Paesi che hanno beneficiato di miliardi di generosità da parte dei donatori”.

Che l’Eritrea abbia percorso finora una strada in salita, ricevendo sanzioni anziché aiuti è un dato. Come un dato sono i traguardi raggiunti, cominciando da quelli indicati per il millennio. E il FT riprende tali traguardi, aspettativa di vita di circa 68 anni, uguale al Ruanda, che “riceve un miliardo” dai donatori. “Secondo la Banca Mondiale più eritrei hanno accesso all’elettricità rispetto alle persone in Uganda, che nel 2022 ha ricevuto 2,1 miliardi di dollari rispetto ai soli 55 milioni di dollari dati all’Eritrea dalle agenzie UN.

Aggiungerei i dati sull’istruzione e sulla sanità.Nel 1991, prima dell’indipendenza, in tutta l’Eritrea c’erano 471 scuole frequentate da 220 mila ragazzi mentre l’unica Università era ad Asmara. Oggi ci sono 1.540 scuole frequentate da 860 mila studenti (su 4 milioni di abitanti) e 7 college nei diversi capoluoghi. La scuola è gratis per tutti, a tutti i livelli, uguale per maschi e femmine.

Quanto alla sanità, le vaccinazioni sono diffuse in tutto il Paese. Nel 1991 l’incidenza dell’AIDS era del 4,5% oggi è dello 0,9%. Migliorata la salute delle donne in gravidanza, la sicurezza del parto e la mortalità infantile, risultati raggiunti grazie ai molti ambulatori sorti sul territorio.

Per terminare, una riflessione sul rapporto tra aiuti e politica, così come raccontato da S.W Omamo, nel libro At the Center of The World in Ethiopia che scrive “ciò che ha visto, sentito e fatto” come direttore del programma alimentare mondiale UN, WFP dal 2018 al 2021. È lui che spiega le false narrazioni a beneficio della comunità internazionale e dei media messe in atto da politici infiltrati nella stessa organizzazione di stanza ad Addis Abeba. A loro è stato permesso, durante la prima fase di scontro in Tigray, tra governo etiopico e Tplf, di raccontare la sofferenza della gente (obiettiva) con dati falsi. In questo modo la fame e la carestia avrebbero potuto premere per un accordo tra governo e Tplf. Famoso il tweet di Samantha Power, (@PowerUSAID, account non più esistente…) in cui afferma che nel Tigray 900 mila persone sono sull’orlo della carestia, utilizzando dati provvisori del WFP.

Leggendo i commenti social sulla chiusura Usaid, oltre all’inevitabile “preoccupazione” internazionale, quello che emerge è lo spirito di rivalsa dell’Africa, che forse con questa scossa seguirà la strada “anomala” eritrea che da sempre ha evitato la carità pelosa, più interessata al benessere di chi dà rispetto a quello di chi riceve.

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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