Traffico di uomini, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sanziona sei trafficanti
TRAFFICO DI UOMINI: IL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL’ONU SANZIONA SEI TRAFFICANTI, quattro libici, un etiopico, un eritreo a capo del network
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite cinque anni dopo il naufragio di Lampedusa, in cui hanno perso la vita 366 persone, la maggior parte eritree, ha sanzionato sei uomini accusati di traffico di uomini.
Nei giorni scorsi era stata presentata all’Onu, dall’Olanda, una blacklist che avrebbe dovuto precedere le sanzioni. Ad affiancare l’Olanda che ha svolto le indagini, Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Obiettivo delle sanzioni è il congelamento dei beni all’estero degli smuggler e dei trafficanti, bloccandone, inoltre, la libertà di viaggio.
Secondo notizie diramate lo scorso mese dalle agenzie internazionali, Reuters e Afp, molti di questi trafficanti avrebbero aperto conti correnti nei Paesi del Golfo, soprattutto Dubai.
In un primo momento la richiesta di sanzioni è stata bloccata dalla Russia che, come riportato dalle agenzie, voleva “maggiori informazioni per valutare la proposta e la sua efficacia in caso di approvazione”. La Russi chiedeva inoltre di verificare l’affidabilità delle fonti utilizzate.
Giovedì 7 giugno anche Mosca ha votato a favore.
Nelle settimane intercorse tra la prima e la seconda votazione, i pubblici ministeri olandesi hanno riferito che gli individui in questione agiscono impunemente, ostentando e utilizzando la propria ricchezza.
“Si tratta di giovani sui trent’anni che spendono soldi in tutto il mondo per affari, milizie personali, immobili e beni di lusso. Si sentono intoccabili”, così ha detto un pubblico ministero olandese.
Le misure restrittive, imposte per la prima volta direttamente dalle Nazioni Unite, sono il frutto anche dell’orrore testimoniato dal servizio della CNN (14 novembre 2017). Un video in cui si assiste all’asta dei migranti fatti schiavi in Libia.
Con le sanzioni, secondo l’ufficio del procuratore olandese, si metterà fine alla circolazione di denaro sporco e alla corruzione in Libia e in altri paesi coinvolti nel traffico.
I sei trafficanti nella blacklist resa nota sono un eritreo, un etiopico e quattro libici.
L’etiopico è Ermias Ghermai. Secondo i magistrati di Palermo dell’inchiesta “Glauco”, il primo maxiprocesso italiano contro il traffico di uomini, sarebbe lui il responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.
Della sua organizzazione farebbe parte anche Medhanie Yedhago Mered, eritreo, latitante da quando è stata emessa nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare nel 2015.
Nelle maglie della giustizia italiana è invece finito Medhanie Tesfamariam Berhe che, secondo gli inquirenti, sarebbe un altro nome per Medhanie Yedhego Mered. Su questa ipotesi però c’è il sospetto che si tratti di uno scambio di persona e che in prigione a Palermo ci sia l’uomo sbagliato.
Ghermai, secondo gli investigatori, gestiva un network di trafficanti e smuggler tra Zuwara, in Libia, e la Sicilia. Ai “clienti” dava il numero di cellulare italiano del fratello Asghedom, finito anche lui nell’inchiesta “Glauco”. Tra i suoi compiti, con l’aiuto di altri, c’era l’organizzazione dei viaggi dalla Sicilia verso i paesi del nord Europa.
Eritreo è invece Fitiwi Abdelrazek, imputato nell’inchiesta di Palermo. Anche lui faceva parte della rete di Ghermai, con il ruolo di occuparsi degli spostamenti, soprattutto all’interno della Libia.
A loro si aggiungono quattro trafficanti libici.
Il comandante della Guardia Costiera di Zawiya. Guardia Costiera tra l’altro, addestrata e aiutata dall’Unione Europea, nell’ambito dell’operazione Sophia. Il suo nome è Abd-Al Rahman Al-Milad di anni 29. Rapporti Onu lo indicano appartenente allo stesso clan di Mohammed Kachlaf di cui è luogotenente.
Mohammed Kachlaf, uomo molto potente, multimilionaro libico accusato di vendere, come schiave del sesso, le donne provenienti dall’Africa sub Sahariana e dal Marocco. Inoltre ha gestito una prigione per migranti ed è a capo di una milizia privata.
Poi Ahmed Al Dabbashi, comandante della milizia libica Anas al Dabbashi, accusato di legami con gruppi terroristici, soprattutto l’ISIS. I documenti Onu dimostrano che, con la sua milizia, controlla le aree di partenza dei migranti, i magazzini e le imbarcazioni.
Infine Mus’ab Abu Qarin 35 anni, accusato di essere a capo di un traffico che ha gestito più di 45mila persone dal 2015.
Il suo soprannome è “il dottore” ed è attivo nel traffico migranti nella zona di Sabrata. Su di lui pesa l’accusa di aver organizzato il viaggio dell’imbarcazione di migranti dalla Libia verso l’Italia naufragata il 18 aprile 2015, con un numero imprecisato di vittime, oltre ai 58 morti accertati. L’imbarcazione poteva infatti contenere fino a 800 persone.
La Libia in questi anni è al centro del traffico di uomini perché, dopo la fine del regime di Gheddafi, nel 2011, il paese è diventata sempre più instabile, governato, di fatto, da differenti clan. Un luogo ideale per nascondere, vessare e lucrare al massimo sui migranti in attesa d’imbarco verso l’Italia.
Un affare che non è sfuggito neppure alla mafia. Spiega il generale Giuseppe Morabito che nei porti siciliani dove attraccano le navi delle ong che salvano i migranti in mare la logistica è in mano alla mafia.
Sono società in odore di mafia quelle che riforniscono le navi delle ong di acqua, viveri, benzina, pulendole e “igienizzandole”, prima della partenza per nuovi salvataggi.
I migranti che si imbarcano in Libia arrivano da paesi diversi, per motivi differenti. Al momento gli sbarchi, rispetto agli anni scorsi, si sono ridotti dell’80 per cento, dati del Viminale. Questo significa che dalla Libia sta partendo chi già si trovava lì, mentre gli arrivi dall’Africa stanno diminuendo.
Per la migrazione dall’Eritrea, però, sono necessarie altre considerazioni.
Nel 2012 l’amministrazione Obama incentiva l’uscita dei giovani eritrei dal paese, garantendo sostegno alle organizzazioni che se ne sarebbero fatte carico. Da quel momento, per gli eritrei diventa più facile ottenere asilo in Europa.
Per questo motivo molti migranti africani all’arrivo si dichiarano eritrei. Diventano eritrei gli etiopici del Tigray, regione confinante con l’Eritrea. Per loro è semplice, parlano la stessa lingua e sono somaticamente uguali. Tuttavia, visto il percorso privilegiato riservato agli eritrei, si dichiarano tali anche somali e sudanesi. Per questo motivo il numero dei richiedenti asilo “eritrei” si gonfia sempre più.
L’Occidente inoltre decide di ignorare che gli eritrei che emigrano, come riferito anche da una fonte diplomatica occidentale interna al paese, sono nel 99.9 per cento dei casi, migranti economici.
Ma perché i giovani eritrei partono dal loro paese per cercare un futuro migliore? Abbandonano l’incertezza causata dall’occupazione etiopica di parte dei territori eritrei, conseguenza del conflitto tra i due paesi (1998-2000).
Oggi però, proprio questa situazione di stallo si sta sbloccando in modo positivo.
La recete visita lo scorso aprile, ad Asmara ed Addis Abeba, del vice segretario di Stato Usa, Donald Yamamoto, indurrebbe l’Etiopia ad abbandonare i territori eritrei ancora occupati.
Una decisione che, mettendo in atto quanto stabilito dalla commissione internazionale nel 2002 che li definiva eritrei, porterebbe stabilità, pace e sviluppo in entrambi i paesi.
Inoltre, rispetto alla passata amministrazione americana che, di fatto, ha lasciato che a gestire la migrazione dall’Africa fossero scafisti e trafficanti, l’amministrazione di Donald Trump si sta impegnando con grande determinazione per fermare tale situazione.
Cominciando proprio dalla lotta al network che regge il traffico. Una filiera nella quale ogni pedina ha un compito. Chi si occupa del passaggio dei migranti fino al confine, chi li preleva nei campi profughi, chi li porta nel deserto per poi consegnarli a chi li parcheggia in strutture d’attesa. Case più simili a celle, quando non vere e proprie carceri. Luoghi dell’orrore raccontati all’arrivo in Italia da molti sopravvissuti.
Dieci mesi dopo il disastro di Lampedusa il presidente dell’Eritrea, Isaias Afwerki, scrive una lettera a Ban ki Moon, allora segretario generale delle Nazioni Unite, per denunciare il traffico che coinvolge tanti giovani eritrei e chiedere che si indaghi.
Il paradosso è che proprio mentre l’Eritrea richiede di far luce sul traffico di migranti venga accusata di incentivarlo.
Nel frattempo gli arrivi via mare continuano. Dal 2012 al 2015 si registrano nei porti italiani i più alti picchi.
Chi ce la fa sbarca in Italia, pronto a proseguire il viaggio, aggirando il Trattato di Dublino, verso le mete prescelte, quasi sempre nel nord Europa. I migranti eritrei, per esempio, non si fermano in Italia, paese di transito che considerano scarso per welfare e opportunità di lavoro.
Emigrare, però, non deve più voler dire morire. Ecco perché blacklist e sanzioni del Consiglio di Sicurezza emanate questo mese sono armi importanti, un passo decisivo per smantellare il business criminale, colpevole di aver già fatto troppe vittime.
Marilena Dolce
@EritreaLive
Lascia un commento