Solidarietà per la regione Amhara. Ieri a Roma si è svolto un evento, in presenza e via zoom, organizzato da Aster Carpanelli, intellettuale etiopica, con l’obiettivo di dimostrare una concreta solidarietà alla regione Amhara, al Wollo, dove le persone stanno pagando un tributo altissimo in termini di vita e sicurezza per gli attacchi del Tplf, (Fronte Popolare per la Liberazione del Tigray) in guerra contro il governo del premier Abiy Ahmed.
Il Tplf è un partito che non nasce in questi anni ma è espressione del potere tigrino dal 1991 fino al 2018.
Due gli interventi, il mio, da remoto, e quello di Francesca Ronchin presente in sala.
Nel suo intervento Francesca ha puntato il dito contro le notizie false, fake news che manipolano l’informazione e la mente, non rendendo più possibile un giudizio corretto sugli accadimenti.
Nel mio invece ripercorro in sintesi gli eventi, dallo scoppio delle ostilità ad oggi, per mostrare come la stampa italiana, le agenzie e i rapporti internazionali li abbiano raccontati.
E il quadro che ne esce è inquietante…
Cosa sta succedendo in Etiopia?
da circa un anno, il paese è in guerra e, notizia dei giorni scorsi, il primo ministro Abiy Amhed è ora sceso in campo. Ha lasciato la poltrona di politico per indossare la mimetica.
Perché? I titoli dei giornali italiani, che peraltro va detto riprendono sempre quelli esteri, raccontano di un Nobel guerrafondaio. Un uomo truce che chiede al suo popolo di “imbracciare le armi” per “schiacciare i codardi, i maligni, i traditori”, cioè il Tplf. Così si legge su La Stampa che spiega che Abiy vuole distruggere i ribelli tigrini alleati dei galla, che purtroppo sono chiamati proprio così, anziché oromo.
Ma perché questa furia? Perché tigrini e oromo avanzano per riprendersi la capitale Addis Abeba, percorrendo la “via dell’Impero”, quella per intendersi che gli italiani spianarono per andare da Asmara verso Addis Abeba. Ora, a parte i rimandi coloniali, quasi sempre impliciti negli articoli della stampa italiana se si parla di Adwa o Mekellè, il quadro che emerge con queste premesse è semplice, un governo feroce della lontana Africa sta, ancora una volta, cercando di sedare nel sangue la sommossa di un Fronte per la libertà.
Però stavolta non è così, anche se la stampa occidentale lo scrive a lettere maiuscole.
Nel discorso alla nazione prima di andare al fronte, il premier ha detto, “ora siamo alle fasi finali del salvataggio dell’Etiopia… i nostri nemici stanno marciando verso di noi, dall’esterno e dall’interno. Preferiamo sacrificare la nostra vita per far vivere l’Etiopia piuttosto che restare vivi osservando un’Etiopia morta”.
Il nemico che sta mettendo a rischio l’unità dell’Etiopia è il gruppo dei così detti ribelli, il Tplf, Tigray People Liberation Front, che è il gruppo che, una volta liberato il Paese dal dominio del Derg, la giunta di Menghistu Hailè Mariam, sale e detiene il potere fino al 2018.
È l’arrivo di Abiy per la prima volta, dal 1991, a interrompere la leadership tigrina, minoranza che rappresenta il 6 per cento della popolazione etiopica che conta circa 110 milioni di persone. Lui invece rappresenta le due etnie maggioritarie, oromo e amhara.
La sua ascesa, vista all’inizio bene dall’occidente e confermata dalle elezioni durante le quali vince il Partito della Prosperità, è in realtà mal digerita dal Tplf, che lentamente lascia Addis Abeba per ritirarsi nella roccaforte del Tigray. Nei due anni di governo la distanza politica tra Abiy e l’elitè Tplf aumenta sempre più sino a quando, il 4 novembre 2020, il Tplf assale la caserma con le riserve militari del Paese.
Probabilmente il Tplf, che peraltro oltre alle cariche politiche nei 27 anni di governo ha ricoperto anche le più alte cariche militari, pensava di sbaragliare rapidamente il campo, uccidendo i soldati non Tplf per entrare poi nella capitale. Questo non accade e il Tplf inizia un’azione di guerriglia contro l’esercito federale, che si allea con l’esercito eritreo e le milizie amhara. Dal punto di vista militare, secondo molti analisti, il Tplf non ha speranze di vincere. Diversa la situazione politica: l’Occidente infatti scende in campo con le proprie truppe mediatiche a fianco del Tplf.
Come mai questa scelta? Perché nei 27 anni di potere, il Tplf, fin dal primo momento sostenuto dall’America, ha creato una rete di interessi e vantaggi tra sé e l’Occidente difficili da smantellare in poco tempo. Così a marzo 2021 i giornali di tutto il mondo riprendono il report di Amnesty International che accusa soprattutto le forze eritree, alleate dell’esercito federale, di aver ucciso ad Axum duecento persone in un solo giorno, tra i 28 e 29 novembre 2020.
A questo punto entrano in gioco i “diritti umani” negati e “i crimini di guerra” perpetrati. Colpe in entrambi i casi addebitate solo all’esercito e al governo federale, non al Tplf.
Non entro nel merito dell’analisi del report, delle fonti anonime, delle interviste telefoniche in un’area dove internet e rete erano allora inesistenti. Aggiungo però due considerazioni. Innanzi tutto il giorno del massacro è quello in cui si festeggia l’Arca della Sacra Alleanza, come riportato dalla stampa locale. Sarebbe stato difficile per le Tv che riprendono in diretta l’evento non mostrare gli eccidi in corso o appena avvenuti. Inoltre il prete testimone della mattanza, le cui parole di dolore sono riportate dalla stampa di tutto il mondo, si è in seguito scoperto che non era un prete e che neppure stava ad Axum quel giorno ma a Chicago…
Però intanto il “massacro di Axum” aveva fatto il giro del mondo. Mentre il ridimensionamento dell’episodio con un numero di morti dimezzato, riportato dal rapporto congiunto commissione etiope per i diritti umani e omologo ufficio UN è, di fatto, ignorato dalla stampa.
Così la guerra diventa una guerra di parole in cui il Tplf eccelle, non tanto per merito proprio, ma perché ben guidato dall’esterno, da chi di comunicazione s’intende.
Il governo di Abiy è accusato di fermare gli aiuti diretti verso il Tigray, per il genocidio del suo stesso popolo. Camion carichi di aiuti che restano fermi per affamare la popolazione e vincere la guerra a tavolino, così scrivono le agenzie internazionali.
In realtà il problema dei camion c’è ma è un altro. Il loro carico non è solo di “aiuti” ma anche di armi per il Tplf. Però i titoli dei giornali su questo restano scettici. Usano i condizionali anche quando una nota del governo scrive che su 300 camion inviati nel Tigray ne sono tornati 38. Il resto è usato dal Tplf a scopi militari. Per inciso il responsabile USAID in Etiopia dichiara in un’intervista, parlando dei saccheggi compiuti nella regione Amhara dal Tplf, che molti loro magazzini sono stati svuotati nelle aree presidiate dal Tplf…
Il 28 giugno di quest’anno una svolta sorprende molti osservatori. Abiy promulga unilateralmente il cessate il fuoco. È tregua.
Il Tplf riprende Mekelle. I giornali, New York Times in primis, ne decretano la vittoria. L’entusiasmo li spinge persino a ritoccare le immagini per mostrare folle oceaniche a fianco dei liberatori, dall’altro inneggiano con toni epici al coraggio dei giovanissimi, per non dire bambini, che impugnano i fucili per difendere la propria terra. Questo però è troppo. Molti sui social si chiedono, indignati, se il NYT avrebbe usato le stesse parole positive se fossero stati bambini soldato occidentali, magari americani.
La tregua militare apre però un altro fronte, quello Amhara, cui la stampa occidentale, per non dire quella italiana, riserverà pochissime parole.
Eppure non mancano video e testimonianze dell’orrore in corso. Ma, come precedentemente per la strage di Mai Kadra, anche stavolta il Wollo resta distante dai cuori occidentali, forse perché non c’è Bob Geldorf che organizza un Live come nel 1985.
Però Amnesty International il 10 novembre pubblica un report in cui ipotizza che il Tplf , secondo le testimonianze raccolte nella regione Amhara, si sia macchiato di crimini contro l’umanità.
Cosa dicono le testimonianze? Sono quelle di donne coraggiose che raccontano, oltre allo stupro, gli insulti subiti per l’appartenenza etnica, per essere amhara. Naturalmente non conquistano i titoli, restando fonti per addetti ai lavori.
Per concludere, un’ultima riflessione sulla superficialità e sulla scelta di sensazionalismo della stampa italiana. Si legge sul Corriere della Sera dello scorso aprile, riferendosi al premier Abiy, “un giorno gli strapperanno il Nobel per la pace, così come un chirurgo di Macallè ha strappato il braccio destro in cancrena a una ragazza diciottenne” il cui nome è Monna Lisa. Ovviamente il riferimento rinascimentale ha fatto breccia. Purtroppo a molte donne questa guerra brutale ha portato via più di un arto. In questo caso, tuttavia, la ragazza, come ha spiegato il padre durante un’intervista, è una combattente Tplf ferita durante gli scontri. Una guerra che il Nobel per la Pace certo non voleva. Eletto di fatto prima, per mettere fine all’emergenza, di diritto poi con le elezioni, non si capisce perché avrebbe dovuto smembrare il paese di chi l’ha votato. Diverso l’interesse della minoranza tigrina estromessa per la prima volta da potere e prebende.
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