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L’Europa aiuti l’Eritrea

Marilena Dolce
03/09/15
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©Antonio Politano, Asmara, ragazzi in bicicletta

©Antonio Politano, Asmara, ragazzi in bicicletta

Una petizione sul sito change.org chiede di bloccare i fondi recentemente stanziati dall’Europa a favore dell’Eritrea. Il motivo non è la cifra, 312 milioni di euro, piuttosto il modo: l’Europa, spiega chi chiede una firma contro, dovrebbe imporre ad Asmara, prima di consegnare i soldi, il cambio di rotta, fuor di metafora, di governo, condizione  ritenuta indispensabile per ricevere l’aiuto.

A favore di questa posizione c’è molta stampa cattolica che appoggia lo spirito delle missioni, un tempo il buon welfare del colonialismo italiano.

Non solo, è la posizione delle Nazioni Unite che lo scorso giugno ha ricevuto nella sede di Ginevra la presentazione di un report sui diritti umani che non lascia scampo: il paese è un inferno da cui i giovani sono costretti a scappare.

E questi governanti, chiede la petizione, volete che ricevano soldi europei?

I commissari che hanno redatto il rapporto sui diritti umani però non sono stati in Eritrea.
Le testimonianze, oltre 500, sono state prese nei campi profughi e in paesi terzi, cioè sono testimonianze di richiedenti asilo che per ricevere lo status di rifugiato devono dichiararsi perseguitati, poichè nel loro paese non c’è guerra.
Senza mettere in dubbio i  racconti, cosa ci si può aspettare che dica un profugo che non riceverebbe asilo se non per motivi politici?

Ho visitato, come molti altri giornalisti occidentali, più volte, per brevi periodi, l’Eritrea e non ho visto un paese strangolato dallo stato di polizia. Forse un paese con una lenta burocrazia, sicuramente un paese povero.
Non si muore per le strade né della capitale né dei paesi più piccoli e remoti.
Gli eritrei, anche i bambini, non chiedono carità, non elemosinano, certo se si porta un piccolo dono sono contenti, come capita in tutti i paesi del mondo, soprattutto in quelli poveri.

Non dipingo un quadretto idilliaco, che gli eritrei per primi non apprezzerebbero, i problemi ci sono e la gente ne parla, però non sono solo problemi politici, almeno non in senso stretto, rimandano alla storia lontana e recente.

Può essere difficile, per un osservatore occidentale, capire un paese dove non ci sono elezioni, tuttavia sul piatto della bilancia vanno messe molte cose, non solo i propri ideali.

Innanzitutto la giovane età dell’Eritrea, indipendente dal 1993, dopo trent’anni di lotta, senza nessun aiuto dall’esterno. Una lotta poco raccontata, sconosciuta in Occidente, con aspetti unici e molto significativi. Una lotta cui hanno partecipato, dal 1961 al 1991, uomini e donne, intere famiglie, persone di etnie differenti, nomadi e stanziali, musulmani e cristiani. Persone che hanno combattuto, studiato, amato, solidarizzato per tantissimo tempo, che hanno dato la vita per conquistare una bandiera, uno stato di fatto, prima ancora che di diritto.

E qui nasce il primo problema post indipendenza, i confini.
Quasi tutti i paesi colonizzati hanno confini artificiosi, stabiliti dalle vecchie potenze colonizzatrici che dividevano le regioni in aree d’influenza sulla base dell’interesse del più forte.

I confini ereditati dall’Eritrea, infatti, sono quelli delineati dall’Italia che la conquista, dandole il nome, nel 1890. Confini tracciati in quegli anni che, dopo l’indipendenza, l’Etiopia metterà in discussione, rivendicando per sé un’area intorno alla città di Badme.

Nel 1998 c’è un nuovo conflitto Eritrea-Etiopia che l’Occidente segue con disattenzione. Nella zona contesa non ci sono ricchezze nascoste, l’aridità è quella tipica di molte parti del paese. Tuttavia il risentimento etiopico, confini a parte, si basa su altre questioni: la necessità di un acceso al mare e l’idea di un’affinità, per cultura e tradizione, con la zona dell’altopiano eritreo, anche se la lingua è differente come ricordano gli eritrei costretti negli anni ‘70 a studiare in amarico.

Dopo la federazione, l’annessione e la dominazione dell’Etiopia di Heilè Selassiè e Menghistu Heilè Mariam, l’Eritrea conquistata l’indipendenza, decide che, pur desiderando avere buoni rapporti con i vicini, il paese debba avere una propria moneta, Nakfa, (dal nome della città simbolo della lotta e della vittoria), staccandosi dal Birr, valuta etiopica.

Poco dopo l’introduzione della moneta, l’Etiopia attaccherà Asmara.
La guerra, con molti morti da entrambe le parti, si chiuderà nel 2002 con l’Accordo di Algeri che stabilisce che l’area contesa è eritrea.
L’Etiopia però non riconosce l’accordo internazionale che, cessando di essere “definitivo e vincolante” come avrebbe dovuto, diventa, negli ultimi tempi, un “alibi” del governo eritreo, una scusa per mantenere il paese in uno stato di “quasi” guerra.

Ma qual è il paese che non ha rispettato l’accordo? E la pace, che l’accordo internazionale avrebbe dovuto garantire, perché non è stata fatta rispettare? Domande che la comunità internazionale evita di porsi. Chiedendosi invece perché l’Eritrea mantenga un esercito.

Torniamo alla storia, perché s’intreccia con la petizione.

Nel 1941 l’Italia perde la guerra e, con la battaglia di Keren, anche la colonia eritrea che passa sotto l’amministrazione inglese, prima militare poi civile. Gli italiani, diventati di fatto ex coloni, ancora numerosi nel paese, hanno attività commerciali, industrie, aziende agricole, concessioni minerarie. Estromessi politicamente, mantengono molti interessi che intendono tutelare, a dispetto della presenza inglese.

Sono anni difficili, (1941-1950) nei quali esplode la criminalità di bande organizzate, gli shifta che, si dice, fossero aiutati dagli inglesi per smantellare il colonialismo italiano.

Queste bande assaltano, fuori città, convogli, autobus, camion, fattorie, agiscono in zone isolate mirando a seminare insicurezza, rubando soldi, effetti personali, qualche volta abiti e vettovaglie, uccidendo e ferendo gli italiani, detestati ex coloni.

Così, mentre l’America invia una Commissione d’Inchiesta per indagare, formalmente, sulle prospettive e i desideri della gente eritrea, gli italiani fondano alcuni partiti pro indipendenza, opponendosi ad annessioni e smembramenti che li avrebbero del tutto estromessi.

Uno di questi partiti, aderente al Blocco per l’Indipendenza Eritrea, è quello di Vittorio Longhi, un industriale che ha in concessione la miniera aurifera di Cellomanin e che viene ucciso ad Asmara, in un agguato condotto in modo insolito. In centro città, davanti a casa, gli sparano alle spalle senza cercare di rubargli nulla, così scriveranno i giornali del tempo.
Longhi lascerà, all’età di 54 anni, moglie e sette figli, tra cui il piccolo Pietro, padre di Vittorio Longhi, che porta il nome del nonno ed è promotore della petizione contro l’Eritrea.
Comprensibilmente nella sua famiglia l’Eritrea non ha lasciato un buon ricordo.

A quel tempo gli italiani che volevano l’indipendenza eritrea desideravano rimanere in una terra nella quale, fino a quel momento, avevano vissuto con serenità e agio. La storia prenderà invece una strada diversa e gli eritrei combatteranno per l’indipendenza senza aiuti italiani.

Ma oggi perché i giovani scappano dall’Eritrea indipendente?
Alcune risposte sono ovvie: c’è povertà, non si vede un futuro, lo stato paga poco per i lavori svolti, quindi si emigra verso luoghi che promettono accoglienza e sussidi maggiori rispetto a quanto si possa sognare di avere, nel breve periodo, in patria.

Perciò la generazione figlia dei combattenti per la libertà, abbandona il paese.
Non scappa dalla guerra ma dalla lotta contro la povertà, verso uno stile di vita occidentale.

Le delegazioni europee che in questi mesi sono andate in Eritrea per capire la “questione migrazione” che semina morti sui confini di mare e di terra, hanno scritto nei rapporti e hanno dichiarato ufficialmente di non aver visto angherie e repressioni ma povertà, stabilendo perciò che gli eritrei sono “migranti economici”.

Dunque si scappa dalla povertà o dalla persecuzione?
L’Eritrea è un paese laico, non ateo, un paese nel quale convivono musulmani e cristiani, senza persecuzione religiosa.

E la persecuzione politica? Può essere che i molti giovani che se ne vanno desiderino una democrazia multipartitica, un nuovo governo, un nuovo presidente, però il dato di fatto è che abbandonano il paese per cercare, in Europa o in America, con l’aiuto di parenti e amici, un lavoro.

La povertà è colpa del governo? È un governo corrotto? La mano sul fuoco per tutti è impossibile metterla, ma nessun rapporto internazionale ha provato che il governo, impossessandosi di beni comuni, abbia impoverito il paese.

La questione centrale, tornando alla storia, rimane quella dei molti anni di dominazione e colonialismo rispetto ai pochi d’indipendenza e libertà. Il paese avrebbe dovuto risorgere e svilupparsi in sei, sette anni, impresa veramente difficile.

Che il paese sia a una svolta, che debba garantire una vita migliore ai giovani, che il servizio nazionale, pur garantendo lavoro, non possa competere con quanto offrono Europa e America, è un dato chiaro a molti eritrei, tuttavia per modificare la situazione sanzioni e isolamento internazionale non servono, servirebbero invece investimenti e aiuti mirati per raggiungere gli obiettivi, come fatto per quelli sanitari indicati per il Millennio (MDG’s).

Sbloccare l’isolamento e aiutare lo sviluppo è l’unico modo per fermare la fuga dei giovani eritrei, il traffico di uomini, le morti in mare, le tragedie sui nostri confini.
L’Europa perciò ha preso la decisione giusta: dare soldi all’Eritrea vuol dire promuovere programmi di sviluppo creando lavoro e migliori condizioni di vita perché la gente possa stare nel proprio paese, primo diritto da salvaguardare.

Marilena Dolce
@EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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