I pastelli dei bambini rashaida, lungo la costa del Mar Rosso
Marilena Dolce
17/01/13
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I bambini rashaida incontrati lungo la costa del Mar Rosso, fuori Massawa, non conoscono i pastelli. Non sono mai andati a scuola.
L’Eritrea è un paese giovane, indipendente dal 1993, con nove etnie dalla storia antica e differente. I rashaida appartengono all’etnia che per ultima, a metà Ottocento, è emigrata in Eritrea dall’Arabia Saudita occupando la costa del Mar Rosso, da Massawa a Port Sudan.
È un popolo nomade, il suo nome significa “rifugiato,” organizzato in clan, che attraversa confini di stati di cui solo parzialmente riconosce diritto e supremazia. I rashaida sono affini ai beduini arabi, di religione islamica, mantengono contatti con gli altri gruppi in Egitto, nella regione del Sinai, nel Sudan Orientale, in Libia.
In Eritrea rappresentano una piccola minoranza: su quattro milioni e mezzo di abitanti, i rashaida sono circa settantamila.
Il loro stile di vita e l’assoluta separazione dal resto della società è, per capirsi, simile a quella dei rom.
Libertà di movimento e presenza di gruppi rashaida sparsi in Paesi confinanti hanno, storicamente, agevolato commerici leciti e traffici illeciti come il contrabbando.
In questi ultimi anni alcuni di loro hanno passato il segno, arricchendosi non più con il contrabbando di merci ma con il traffico di esseri umani, come denunciato molte volte dalle ong di diversi Paesi.
In Italia, la stampa cattolica, comprensibilmente addolorata per il destino di uomini e donne innocenti, ha incolpato di ciò il governo di Asmara, identificandolo con la minoranza rashaida e ha affermato che, proprio tra i rashaida eritrei, si annidano i protagonisti di questa brutta storia di sopraffazioni arricchimenti.
In realtà gli eritrei nella vicenda del traffico di uomini hanno un ruolo preciso, sono vittime.
Senza visti e permessi, non concessi dalle ambasciate europee, è impossibile per gli eritrei espatriare legalmente. ”Via cammello,” come dicono da queste parti, invece si può raggiungere Cassala, la prima città del confine sudanese. E qui entrare nei campi profughi UNCHR (United Nation High Commissioner for Refugees), richiedere asilo e, come rifugiato sperare di continuare il viaggio, per vivere a lavorare in Europa.
L’Eritrea, per la conflittualità con l’Etiopia, (ultimo scontro 1998-2000) ha istituito una leva obbligatoria, come del resto Israele, e un servizio nazionale per ricostruire, con le proprie forze, quanto distrutto con le armi e, prima ancora, a causa delle nazionalizzazioni imposte dal Derg.
Vivere in un paese povero non piace ai ragazzi eritrei più di quanto piaccia a quelli occidentali. La generazione più giovane non ha combattuto per liberare il paese, non «ha sposato la sofferenza», come dicono gli ex combattenti, cerca un destino migliore.
Il dramma dei profughi nella zona del Sinai è, senza dubbio, un problema politico, la spia del malessere di una minoranza di giovani eritrei.
Emancipazione dallo status di colonia, conquista della sicurezza alimentare, ricostruzione delle infrastrutture di base, della scuola, della sanità non sono stati obiettivi sufficienti per accettare il sacrificio di lavorare con forza e determinazione per la difficile e ancora incompiuta ripresa del paese.
Molte però sono le responsabilità esterne che hanno permesso questa vendita di uomini con lugubri trattative. Per i rashaida l’unica patria è il clan, quindi quelli tra loro che vivono tra Eritrea, Sudan, Libia, Yemen, considerano le persone in fuga un business. Merce da rivendere ai beduini egiziani. L’Egitto di Morsi, in questo momento, ha altre piazze di cui occuparsi e non interviene nella zona del Sinai, lasciata da molto tempo al proprio destino, mentre Israele, meta delle tragiche emigrazioni, protegge se stesso, respingendo con un muro l’arrivo di una (non desiderata) manodopera africana.
Proprio la chiusura di Israele, ha determinato un orrendo crimine ulteriore: la richiesta ai familiari delle vittime di un “riscatto,” perché queste persone, dopo il rapimento, non potendo raggiungere nessun paese, avevano perso “valore”.
Ma i rashaida non sono solo criminali.
Molti, pur vivendo un tempo lontano dal nostro, campano commerciando in bestiame, capre, pecore e, soprattutto, cammelli, anche da corsa, di cui sono grandi conoscitori. Parlano quasi esclusivamente arabo. Sono una società nella società e non condividono con l’Eritrea usi e costumi, se non per lo stretto necessario.
Sono esentati dal servizio militare e nazionale, spesso sono analfabeti, si tramandano a memoria, di generazione in generazione, il patrimonio del gregge.
Le donne, fin da piccole, sono velate con un pesantissimo telo nero, a volte ricamato che lascia scoperti gli occhi ma oscura il volto, in modo che nessuno lo veda fino al matrimonio.
Abitano zone costiere suggestive e isolate, senza nessun servizio , nè acqua nè luce. Vivono sotto tende pesanti, scure e basse, fissate con paletti alla sabbia coperta con un tappeto sul quale si dorme e si mangia.
Gli uomini lavorano, si occupano delle bestie. Le donne curano i figli, ornano con perline colorate e conchiglie il velo e gli abiti con disegni geometrici rossi e neri, creano gioielli d’argento con pietre dure.
I ragazzi rashaida frequentano Gurgussum, la lunga spiaggia di Massawa, in attesa di turisti cui chiedere soldi in cambio di una “foto ricordo” con cammello (parcheggiato con una delle zampe ripiegata e legata), o di alcune belle collane di cipree.
Gli uomini, vestiti di bianco, con gilet e turbante, non sempre vogliono estranei nella loro zona, però, se accompagnati da una persona del luogo, possono offrire una tazza di chay, il tè aromatizzato, sotto la loro tenda.
I bambini e le donne contrattano
immediatamente e, sapendo che “il tempo è denaro,” chiedono “money” per essere fotografati, per rispondere, tramite interprete, alle domande e, immagino, anche per il tè.
I piccoli hanno imparato che i bianchi, soprattutto i turisti, sono anime generose, così chiedono, con insistenza e in italiano, “caramelle” oppure “chupa,” prelibatezza d’esportazione.
Io avevo in borsa qualche pastello. Così, mentre la capretta dietro di me partecipa al rito del tè mangiandosi un pezzettino di tazza, li prendo dalla borsa per darli ai piccoli.
I bimbi li guardano incuriositi, mostrandoseli tra loro.
Poi mi chiedono come si possano. Alcuni provano a colorarsi la pelle. Allora stacco dalla “moleskine” un po’ di fogli bianchi e, con i colori che mi passano, disegno fiori, erba, sole.
È una festa.
Stringono forte i pastelli, improvvisano disegni e a me dispiace non averne di più.
Dopo averli lasciati, ripromettendomi di tornare, chiedo della loro vita sociale e se frequentano la scuola.
In Eritrea la scuola ha raggiunto i villaggi più sperduti e per strade e sentieri s’ incontrano bambini con divise colorate che vanno a scuola anziché ad accudire le pecore.
I rashaida non permettono ai loro bambini di frequentare le scuole con gli altri, però il governo ha organizzato scuole mobili, con camper. A insegnare sono rashaida che cercano di garantire una scolarità di base.
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