Etiopia e Gibuti accusano l’Eritrea di destabilizzare il Corno d’Africa
Marilena Dolce
23/02/15
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All’inizio di febbraio sul Worldbulletin, giornale di Istanbul, è uscita una nota nella quale si legge che, durante il “First High Level Joint Commission Meeting”, Etiopia e Gibuti hanno stilato un comunicato stampa congiunto nel quale accusano l’Eritrea di minare la stabilità del Corno d’Africa.
Per questo motivo i due paesi chiederebbero alla comunità internazionale di “prendere seri provvedimenti contro l’Eritrea” che avrebbe la colpa di destabilizzare la zona.
La dichiarazione, passata inosservata sulla stampa occidentale, travolta dalla crisi libica e dal terrorismo dell’Isis, è arrivata al termine di una tre giorni d’incontri a Gibuti, tra il Presidente della Repubblica Ismail Omar Guelleh e il primo ministro etiope Heilemarian Desalegn.
Una visita attesa, utile per rinsaldare legami, rinnovare amicizie politiche e sinergie economiche tra due paesi che dichiarano di “stare sulla stessa barca”, di avere “uguali valori, stessa cultura e stessa visione economica”.
Niente di più vero.
L’attuale presidente, Ismail Omar Guelleh succeduto allo zio Hassan Gouled Aptidon in carica, seppur dopo contestate elezioni, dalla fine degli anni‘90 parla amarico ed è legatissimo all’Etiopia, alla zona di Harar, nella quale è nato e dove mantiene importanti contatti.
Per Gibuti, paese con circa 800 mila abitanti senza particolari risorse naturali né sviluppo agricolo, con un PIL intorno a 1,5mld di dollari, certo distante da quello di altre economie africane, un buon rapporto politico con l’Etiopia significa benessere e sviluppo economico.
Per l’’Etiopia, invece, Gibuti è lo sbocco al mare da cui far partire e arrivare tutte le merci. Gibuti esporta in Etiopia il sale, maggior prodotto, importando ciò di cui il paese ha bisogno. E proprio all’esportazione del sale estratto dal Lago Assal sarà dedicato uno dei nuovi porti commerciali, quello di Ghoubet, in costruzione presso l’omonima baia.
Gibuti, nodo geografico strategico, forse “Africa’s Singapore?” come ha recentemente titolato un giornale etiope, importante base militare per molti paesi stranieri, ha beneficiato, in questi ultimi anni, proprio per la posizione privilegiata, di forti investimenti per la realizzazione di porti e infrastrutture.
“Gibuti Vision 2035” è il nome del piano di sviluppo avviato grazie alla Banca Mondiale che ha trovato riscontro nei colloqui di questi giorni durante i quali Etiopia e Gibuti hanno stabilito l’avvio di nuovi progetti, confermando il termine, nel 2016, dei lavori per la linea ferroviaria elettrificata Gibuti- Addis Abeba e stipulando accordi in campo energetico.
Per quanto riguarda l’energia, Gibuti quattro anni fa ne ha avviato l’importazione dall’Etiopia, riducendo sensibilmente i costi. Se finora il paese ha potuto fare affidamento soprattutto su generatori diesel, tra poco sarà costruita, nella zona settentrionale, una centrale elettrica in grado di garantirne l’ulteriore fabbisogno.
Tutti i progetti di sviluppo di questi anni, quattro nuovi porti, oltre a quello storico, la free zone, una zona industriale comune con l’Etiopia alla frontiera tra i due paesi, la costruzione di un aeroporto vicino alla capitale, sono stati resi possibili grazie al buon rapporto con l’Etiopia.
Oltre ai legami economici i due paesi condividono una visione politica che li ha spinti a puntare il dito contro l’Eritrea accusata di destabilizzare la regione.
In che modo? Come? Per il momento non l’hanno spiegato.
Il Ministero degli Affari Esteri eritreo ha diramato subito dopo un comunicato nel quale si legge lo “sconcerto” per questo immotivato attacco.
Immotivato a meno che, come spesso accade nell’area, per capire quello che succede oggi non si debba guardare un po’ indietro.
L’Eritrea nel 1993 conquista l’indipendenza ma qualche anno dopo è attaccata dall’Etiopia che, forse non rassegnata dalla scelta del “fratello minore” di uscire dalla sua orbita politica ed economica, sostiene che una vasta zona di confine attorno alla città di Badme sia etiope.
Due anni di guerra, morti e feriti da entrambe le parti, quindi nel 2000 fine del conflitto e verdetto super partes stabilito dalla EEBC, Eritrea and Ethiopia Boundary Commission, nel 2002 secondo il quale quei territori sono eritrei.
Il verdetto avrebbe dovuto essere “definitivo e vincolante” ma l’Etiopia non l’accetta e le sue truppe restano ancorate al confine eritreo.
Da quel momento l’Eritrea entra in uno stato di guerra fredda, di “non pace-non guerra” una situazione che, passando gli anni, diventa sempre più difficile e, soprattutto, si ritorce contro il governo, cui la generazione più giovane rimprovera di aver dato una pace insicura, senza futuro, di averla costretta a servire lo stato, senza poter lavorare per sé.
È di questi giorni la notizia che il Servizio Nazionale, nato dopo l’indipendenza come mezzo per ricostruire il Paese con le proprie forze, espressione concreta del concetto di self-reliance, tornerà a durare 18 mesi, cancellando lo stato di precarietà e l’accusa di arruolare e sfruttare i giovani per un tempo indefinito.
I ragazzi che emigrano, però, lo fanno per motivi economici, per raggiungere un’Europa che prima non concede visti, poi li accoglie a patto che dicano di “chiedere asilo” per motivi politici, incoraggiando in questo modo un traffico di uomini manovrato da predoni che si arricchiscono sulla pelle di chi è nell’illegalità.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, (UNSC) prima nel 2009 poi nel 2011, accuserà l’Eritrea di armare e aiutare Al Shabab, organizzazione fondamentalista somala. A distanza di cinque anni non sono emerse prove, tuttavia le sanzioni restano, completando l’opera di affondo di un paese che, ancora una volta, resiste.
Infatti in questi difficili anni l’Eritrea, che persino durante la lotta per l’indipendenza non aveva rinunciato a costruire scuole e ospedali nascondendoli al nemico, raggiunge gli importanti obiettivi sulla salute posti dal Millennio (MDGs), riduce drasticamente la mortalità infantile, che negli anni’70 era del 50%, la morte per parto e quella neonatale, estende le vaccinazioni, combatte e debella malaria e HIV.
Prima dell’indipendenza un bambino su due, sotto i cinque anni, moriva. Oggi bambini e bambine non muoiono più e vanno a scuola.
La generazione nata dopo l’indipendenza sa leggere e scrivere. Se, come si ripete spesso, l’alfabetizzazione è il primo passo verso la formazione di una società più giusta nella quale la gente è in grado di occuparsi della propria salute, del proprio futuro, questo risultato è stato raggiunto.
I ragazzi non hanno bisogno di andare nei campi profughi sudanesi o etiopi per trovare una scuola, piuttosto avrebbero bisogno di un lavoro nella propria terra, in un paese finalmente in pace, per il quale potrebbero fare molto.
Per chi ha visitato più volte il Paese, l’accusa che l’Eritrea affianchi il terrorismo è difficile da comprendere perché il clima di tolleranza religiosa e convivenza tra etnie diverse è palpabile, si coglie anche nella vita quotidiana.
Musulmani e cristiani vivono negli stessi quartieri, sono amici e vicini di casa, vanno gli uni alle feste degli altri. Ripercorrendo la storia, anche quella coloniale, si vede che nelle scuole missionarie cattoliche, un tempo le più diffuse, bambini islamici e cristiani erano compagni di banco. E l’Eritrea indipendente ha proseguito l’opera di unificazione fondando un paese senza sentimenti di superiorità etnica o religiosa.
Tutti si considerano uguali.
Ma perché Gibuti accusa l’Eritrea?
Si può supporre che ciò accada da un lato per compiacere l’Etiopia, dall’altro esistono strascichi di vecchie dispute coloniali che hanno lasciato in eredità labili confini e intricate situazioni diplomatiche.
Poco prima del conflitto con l’Etiopia, nel 1996, il governo di Gibuti accusò l’Eritrea di aver attaccato il villaggio di Ras Doumeirah abitato da un’etnia nomade, gli afar, presenti a Gibuti, in Eritrea, in Etiopia e nella Somalia settentrionale.
L’Eritrea negherà, evitando lo scontro. Qualche anno dopo, nel 2004, con la mediazione della Libia, le relazioni diplomatiche tra i due paesi miglioreranno pur rimanendo, per Asmara, collegate ai rapporti d’amicizia tra Gibuti e l’Etiopia.
La buona notizia arriverà il 6 giugno 2010 quando i due presidenti, quello di Gibuti Ismail Omar Guelleh e quello eritreo, Isaias Afwerki, con la mediazione dell’emiro del Qatar Sheik Hamed Bin Khalifa al Thani, firmeranno un accordo che farà cessare le tensioni nella zona.
In questi ultimi mesi, in campo internazionale, si sono levate molte voci a favore dell’Eritrea, contro il persistere di sanzioni che stanno avendo una violenta ricaduta sul paese, impoverendolo, fermandone la crescita e causando l’emigrazione di chi non riesce a trovare lavoro.
Nel comunicato stampa del Ministero degli Affari Esteri eritreo si legge che alla base dell’accusa mossa da Gibuti ed Etiopia, c’è proprio la preoccupazione di un possibile annullamento delle sanzioni.
Sul Corno d’Africa bisognerebbe sperare che, primo o poi, oltre al Khamsin, vento caldo che ricopre ogni cosa, soffi il “vento del nord”, un vento che porta il futuro senza sradicare la storia, come scrisse Pietro Nenni nel 1945, riferendosi all’Italia non ancora del tutto libera.
Un vento che spazzi “interessi strategici” simili a quelli espressi negli anni Cinquanta dal Segretario di Stato americano John Foster Dulles che, per giustificare la federazione tra Eritrea ed Etiopia disse all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “sebbene i desideri del popolo eritreo debbano essere tenuti in considerazione, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso impongono che il Paese venga legato al nostro alleato Etiopia”.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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