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EritreaLive intervista Valentina Furlanetto, l’industria della carità

Marilena Dolce
28/03/14
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Valentina Furlanetto ha pubblicato lo scorso anno, per Chiare Lettere, un saggio molto interessante che indaga sulla bontà di un aiuto che, purtroppo, non sempre arriva a destinazione, ritornando verso chi dà invece di arrivare a chi dovrebbe ricevere, senza che  i donatori conoscano i meccanismi che regolano la destinazione dei soldi dati alle associazioni.

Il suo libro L’industria della carità ha, senza dubbio, contribuito a far conoscere operato e struttura di molte organizzazioni, alcune delle quali hanno fatto della carità, un’industria.3833442

EritreaLive ha intervistato Valentina Furlanetto. 

La prefazione del suo libro è di Alex Zanotelli, il padre combinano, un tempo direttore di Nigrizia, come mai?

Cercavo una persona che fosse critica verso gli “aiuti”. Lui lo è stato e ha pagato un prezzo, però non è ostile e poi non è estraneo all’ambiente. Il pericolo, infatti, era quello di essere accusata di disfattismo. Non volevo essere disfattista, solo guardare verso questo mondo degli aiuti, senza pregiudizi, evitando il “buonismo”.

A Milano, durante un panel svoltosi nel corso del Forum Cooperazione e Sviluppo, il direttore di Medici Senza Frontiere Italia, Kostas Maschochoritis ha usato toni critici verso molti aspetti dell’aiuto, dicendo che le ong hanno perso indipendenza…

L’opinione pubblica italiana non conosce questi aspetti, anche i giornalisti spesso non sanno. Come spiego nel libro è stata importante la decisione che ha preso Medici Senza Frontiere, dopo lo tsunami, di aprire un dibattito pubblico sugli aiuti destinati alle emergenze. Era importante parlare con i donatori. E la gente ha risposto, dicendo:«tenete i soldi per altre emergenze». Hanno avuto fiducia in un meccanismo che domanda loro che fare, come gestire soldi raccolti per le emergenze, senza spostarli verso altri “aiuti”. Non tutte le organizzazioni hanno agito con questa trasparenza perché l’emergenza, va detto, amplifica il marketing.

Nel libro La carità che uccide, l’economista Dambisa Moyo dice che le ong sono poco efficienti, hanno alti costi organizzativi e amministrativi, inoltre sono poco utili al Paese dove operano di cui dovrebbero aiutare lo sviluppo. 

Sì, la critica di Dambisa Moyo è forte, pesante.

Nel luglio 2012, in Italia, la Corte dei Conti scrive che 23 ong su 84 hanno grossi problemi di efficacia. Mi è stato contestato questo dato, perché si è detto che era una critica della Corte dei Conti al Ministero che dà con ritardo i fondi. In realtà non è così. Non è una critica per il ritardo dei fondi. La Corte dei Conti si esprime sulle ong che per il 33 per cento  hanno problemi di trasparenza, una situazione illuminante. Dei giudici contabili del resto non si può dire che avessero interessi. Ben venga qualcuno che dall’esterno possa controllare. Un’autorità esterna alle ong che possa controllare i bilanci. I soldi non devono essere usati male o peggio, non devono creare corruzione e dipendenza.

E poi c’è la cooperazione internazionale di cui lei parla nel libro…

La cooperazione ONU e Fao è un’altra questione problematica…Se ne è occupato soprattutto il collega Christian Rocca che ha scritto un libro che consiglio di leggere,[ndr Christian Rocca, Contro l’ONU]

Quello al traino delle Nazioni Unite spesso è un bel carrozzone con cooperanti bordo piscina, naturalmente del migliore albergo.

Il circo delle ong è ricco di comparse che drogano il mercato del lavoro locale, fanno gruppo, alimentano la prostituzione, molti sono i racconti ascoltati che parlano di questo.

Personalmente volevo sottolineare la parte malata della cooperazione internazionale da cui dovevano distinguersi le ong nate come organismi sani, snelli.

Oggi però anche le ong sono diventate degli apparati enormi che spendono molto.

In Italia il fenomeno è minore. Non ci sono stipendi faraonici, molti sono volontari. Però hanno assunto i difetti che critichiamo nelle organizzazioni più grandi e in quelle legate all’ONU.

Le ong italiane si stanno trincerando dietro la professionalità del loro operare, privo però dei doveri del profit. Allora bisogna decidere se essere dilettanti in buona fede o dotarsi di anticorpi e diventare professionisti.

Il caso di Emergency in questo senso è emblematico. Da un lato un passaggio generazionale, dall’altro un buco di bilancio di circa 5 milioni di euro. Tutto perché diventando sempre più grande ha continuato a essere trattata come la bocciofila sotto casa. Questo è un punto che nel libro sottolineo; le ong si stanno modificando ma alcuni cambiamenti non sono positivi,  a volte c’è dilettantismo, altre volte mala fede.

Un esempio…

Emergency e Sudan: nell’opinione pubblica tutto è molto confuso. Se George Clooney si incatena per il Darfur c’è il plauso della stessa persona che indossa  la maglietta con la scritta  “Io sto con Emergency”, senza capire che il problema del Darfur è Al Bashir, presidente del Sudan e sponsor di Emergency che, in quel Paese, svolge la maggior parte del suo lavoro.

La giustificazione che viene data per spiegare perché nel loro caso pecunia non olet è quella della missione: loro sono medici, curano le persone non fanno politica.

Ma l’uomo non è animale politico?

Soprattutto se la reputazione si basa sull’etica, allora il problema te lo devi porre, altrimenti non sei coerente. Devi porti il problema di chi ti finanzia.

Pacifismo e accettazione dei soldi non possono portare all’incoerenza.

Quando il Sudan ha espulso le ong, loro sono rimasti. Se decidi che la tua è realpolitik, va bene, però se la tua bandiera è il pacifismo, se quella è la tua immagine, allora hai due morali… invece loro cercano di scindere le due parti e non mischiare le immagini.

Questo è ciò che mi premeva chiarire. Diciamo che, con il libro, ho smosso le acque, gettato un sasso nello stagno, ora vedremo…la gente deve sapere le cose.

Deve sapere a chi dà i soldi, deve poter decidere. Altrimenti è disinformazione.

Informazione, disinformazione e i giornalisti…stanno a guardare?

Per i giornalisti è facile essere controcorrente, quando la corrente contraria è mainstream.

Se la controtendenza è autentica allora decidono che è meglio fermarsi. Anche il pubblico guarda con sospetto un cammino controcorrente, non vuole una corrente sbagliata.

Il mio è un libro controcorrente, per questo molto criticato.

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Niente fotografie, grazie, sta dicendo la ragazza eritrea a chi ormai ha già scattato…

Faccio un esempio. Sono stata invitata da Corrado Augias per parlare del libro [ndr Le storie, diario italiano,  Rai Tre puntata del 20 marzo 2013]. Un invito molto importante, però l’atteggiamento del conduttore è stato quello di chi se ne lava le mani,  sottolineando  in continuazione che  esprimevo un punto di vista:  “hai detto tu”, “come hai scritto tu”. E poi il distacco dalla critica verso l’ONU, i buoni per eccellenza, è stato totale.

Quando si parla di “aiuto” non bisogna dimenticare che questo aiuto è per lo più  diretto in Africa. E qui si apre un altro capitolo: come comunicare senza utilizzare “buonismo” e luoghi comuni?

Il bambino africano che la foto ritrae penoso è il luogo comune per eccellenza, lesivo della deontologia del giornalismo. In questi casi non c’è rispetto, c’è colore.

Dar da mangiare e intanto scattare le foto è pornografia. Ma sappiamo che il codice deontologico non vale in Africa dove non esiste il rispetto della privacy: per fotografare basta entrare nelle case, per impietosire mostrare visi di bambini tristi.

Da noi i minori sono protetti, il loro viso, se raccontato dalla cronaca, è coperto. In Africa non è così, sono buttati in pasto ai media che fotografano tutto quello che fa vendere, in primis l’immagine del bambino che soffre, il volto della povertà.

Quello che fa vendere, che piace,  è l’immagine di un Africa esotica, un’Africa in cerca di pietà per commuovere e far donare alle associazioni, bambini sofferenti servono per mettere le mani nel portafoglio della gente…

Non c’è rispetto per la dignità.

Vorrei terminare l’intervista citando un altro problema di cui l’autrice parla nel libro: l’invito che le ong fanno ai giornali perché si viaggi con loro, si parli del progetto, si raccontino i programmi.

Spesso il giornalista al seguito di un’associazione umanitaria non sa nulla del Paese  che visiterà. La Furlanetto scrive nel libro che questi cronisti “ingaggiati” dalle ong sono embedded, come quelli al seguito degli eserciti nelle zone di guerra.  Anche loro vedranno e racconteranno solo una parte della storia. E certamente quest’atteggiamento non si allontanerà dagli stereotipi su un Africa povera, affamata, malata di aids, in cerca di aiuto per raggiungere lo sviluppo grazie alla generosità dell’Occidente. 

 

©Marilena Dolce

@EritreaLive

 

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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