EritreaLive Intervista Pietro Zambaiti, AD Za.Er. In Eritrea il tessile è italiano
IN ERITREA IL TESSILE È ITALIANO – ERITREALIVE INTERVISTA PIETRO ZAMBAITI, AD ZaEr, Zambaiti Eritrea
Pietro Zambaiti, amministratore delegato Za.Er, Zambaiti Eritrea fa la spola tra Bergamo e Asmara, capitale dell’Eritrea, dove si occupa dell’azienda tessile di famiglia.
Il cotone, da sempre, è l’anima Zambaiti. Il nonno inizia a occuparsi di commercio tessile fin da giovane. Nel 1948 fonda il primo nucleo di quello che diventerà il gruppo Zambaiti. Negli anni Sessanta, con Giancarlo padre di Pietro, nasce il Cotonificio.
Nel 1992, quando il tessile italiano entra in una delicata fase di trasformazione, la famiglia Zambaiti acquisisce il Cotonificio Honegger.
Una storia che termina, venti anni dopo, nel 2012, quando lo storico cotonificio di Albino, interrompe l’attività.
Un trauma per un’azienda simbolo della sicurezza, con un lavoro che passa, al femminile, di madre in figlia. Un modo per le giovani di assicurarsi ol pa’n’véta, “Il pane a vita”. Titolo del documentario che racconta il triste sgretolamento dell’industria tessile bergamasca.
Mio padre ha dato vita a un gruppo industriale che, negli anni in cui il tessile in Italia è una realtà importante, conta più di 1.000 dipendenti, spiega
Pietro Zambaiti, intervistato da EritreaLive a Bergamo
Poi cosa succede?
Partiamo dalla data dell’acquisto, da parte nostra, del Cotonificio Honegger di Albino, nel 1992. Una data significativa.
Nel 1993 in Italia non è ancora stato introdotto l’euro (ndr,1 gennaio 2002 ingresso dell’euro in Italia, tre anni prima l’euro era diventata valuta ufficiale europea) e con la lira le imprese italiane si avvantaggiavano degli interventi sui cambi, con svalutazioni periodiche. Come se non bastasse l’Europa decide di immolare il tessile, abdicando alla competitività cinese.
Crisi in Europa, sviluppo in Cina. In Cina i prodotti di qualità sono moltissimi. Una condizione che permette loro di essere competitivi nella fascia media, relegando il tessile italiano ed europeo alla nicchia. E per noi nicchia voleva dire morte. Non era possibile. Come se non bastasse nel 2008 arriva la crisi che azzera tutti i tentativi possibili per farcela. Nella storia Honegger è coinvolta la macro economia ma anche il territorio. Sono molte le mancanze che hanno reso vano lo sforzo sia nostro sia dei nostri lavoratori per resistere.
A quel punto, per voi, si apre un’altra strada?
Si. In origine il Cotonificio Honegger produceva tessuti solo in Italia. Per essere più competitivi e offrire un maggior servizio ai nostri clienti avevamo l’assoluta necessità di internazionalizzare e verticalizzare la produzione.
Nel 1993 mio padre decide di andare in Eritrea.
Subito dopo l’indipendenza dell’Eritrea?
Si. In quegli anni l’Eritrea pensa di privatizzare alcune aziende. (ndr, le aziende private erano state tutte nazionalizzate dall’Etiopia di Menghistu Heilemariam). Mio padre in Eritrea vede le condizioni difficili ma anche le prospettive del paese. Così propone al governo di riavviare l’industria tessile. Chiede però di avere in dono quanto resta della vecchia industria tessile “Barattolo”, pagando il prezzo simbolico di un dollaro.
E quanto rimaneva di quell’industria?
Niente. Erano necessarie molte risorse, nuove tecnologie, formazione del personale. Anche perché la lunga lotta contro l’Etiopia (ndr, 1961-1991) aveva interrotto la vita dell’Eritrea.
Il governo in un primo momento rifiuta. Poi, qualche anno dopo, accetta. A quel punto, noi famiglia, torniamo in Eritrea. Vediamo che il lavoro sarà molto ma intravediamo anche gli aspetti positivi. Per esempio l’atteggiamento amichevole della gente.
Perciò decidete di cominciare?
Si. Accettiamo la sfida, anche perché sia io sia mio papà avevamo già un bel rapporto con l’Africa. Negli anni precedenti eravamo stati in Ghana per aiutare un missionario. Io coordinavo la logistica in Italia e le donazioni per questo centro Comboniano.
Già 30 anni fa mi occupavo d’integrazione per gli immigrati che arrivavano in Italia. Insieme ad alcuni amici avevo costituito un’associazione che si chiamava ChiaroScuro.
Quindi lei parte per l’Eritrea?
No. Era il 2004 e io resto in Italia per seguire la produzione di tessuti del Cotonificio Honegger.
Però mi occupo delle relazioni tra Italia ed Eritrea. Ho sempre pensato che l’Italia potesse giocare un ruolo importante per l’Eritrea. È vero che ci vuole uno sforzo da parte eritrea, però l’Italia può essere il player della partita.
Così fin dall’inizio affianco le delegazioni che arrivano dall’Italia. Penso sia importante che un’azienda come la nostra, che dà lavoro a centinaia di persone, contribuisca, nel suo piccolo, allo sviluppo del paese che la ospita.
Quando però la vicenda tessile italiana si chiude, nel 2014, parto per l’Africa, destinazione Asmara.
Inizia StartAfrica, nome emblematico scelto per la società.
Obiettivo? Organizzazione e sostenibilità, per poi iniziare a crescere.
Oggi i dati dimostrano che, pur in uno scenario in evoluzione e non semplice, la Za.Er è un modello di azienda responsabile e sostenibile nell’Africa sub Sahariana.
La Za.Er eredita il complesso industriale del Cotonificio Barattolo, fondato da Roberto Barattolo negli anni ’50. Lo stabilimento allora comprendeva una filatura (25 mila fusi) e una tessitura (424 telai). Voi oggi reggete quel paragone?
Il Cotonificio Barattolo è il testimone per eccellenza del fatto che in Eritrea si può fare impresa. Barattolo, ricordiamo, arriva negli anni Cinquanta, non Trenta.
Arriva cioè in anni in cui il colonialismo italiano è finito (1941) e c’è Heilè Selassiè, che ha ricevuto in dote dalle Nazioni Unite l’Eritrea…
Per l’Italia l’Eritrea, anche in quegli anni, resta “la regione più sviluppata”, se così si può dire. C’è una classe media d’imprenditori e un rapporto con la popolazione con molte ombre, il colonialismo, ma anche parecchie luci.
Lo dimostra l’amicizia tra eritrei e italiani. Gli eritrei riconoscono di aver ereditato strutture e imparato lavori dagli italiani.
Gli artigiani e le piccole imprese, fino agli anni Trenta hanno lavorato con gli eritrei. Prima c’erano 70mila, anche 100 mila italiani, molti dei quali facevano lavori manuali. Negli anni Settanta, invece, per le vicende politiche, gli italiani lasciano l’Eritrea. Ne rimangono 15 mila. A quel punto il rapporto con gli eritrei diventa ancora più stretto e vitale. Lavorano insieme.
Tornando a Barattolo. Lui arriva in Eritrea e fa fortuna nel tessile in un’epoca in cui il tessile va bene anche in Italia. È il mercato mondiale che è in crescita. La fine della “Barattolo” coincide invece con la nazionalizzazione operata dal governo militare etiopico
Barattolo aveva anche campi di cotone?
Si. Non solo lui. Gli italiani, negli anni Trenta e Quaranta, avevano avuto concessioni di terreni per coltivare cotone.
Il cotone per crescere ha bisogno di acqua e caldo. In Eritrea il caldo non manca. La pioggia invece è stagionale. Però se si costruiscono dighe per trattenere l’acqua si possono irrigare e rendere fertili i campi anche quando non piove.
Oggi il governo ha costruito nuove dighe, condizione essenziale per lo sviluppo agricolo.
Però per il cotone, oltre a tutto ciò, serve un’analisi comparativa con altri paesi, sia per le condizioni del suolo, sia per quelle climatiche.
Anche per la confezione serve un nuovo modo di lavorare. Ecco perché abbiamo portato in Eritrea tecnici italiani e rumeni. Il loro compito era formare gli eritrei che poi sarebbero subentrati. Anche per la coltivazione del cotone servirebbe un passaggio di competenze.
Dove si coltivava cotone in Eritrea?
Nella tenuta di Alghidir, vicino a Tessenei, quasi al confine con il Sudan e in altre concessioni come Kerkebet.
In Eritrea idealmente, e come sognato dallo stesso presidente Isaias Afwerki, si potrebbero avere due semine, una durante la stagione delle piogge, l’altra utilizzando l’acqua delle dighe.
Importante è riuscire ad avere una buona qualità di cotone. E per questo serve la collaborazione degli specialisti.
Certo ci piacerebbe acquistare cotone eritreo. Senza non si può avere filatura.
Se non cresce sul posto si consuma troppa energia e acqua per trasformare una materia prima che arriva da altri paesi africani. Non è conveniente per nessuno.
La Za.Er oggi confeziona camicie e abiti da lavoro, civile (uffici, ospedali, scuole, alberghi) e militare. il nostro obiettivo per il prossimo biennio è esportare abiti da lavoro nell’area COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa), il mercato comune dell’Africa Orientale e Meridionale.
Partendo da paesi quali Sudan, Uganda e Kenya. Se le relazioni, come speriamo, dovessero migliorare un mercato importante sarebbe l’Etiopia. Il successo di Barattolo era determinato ovviamente dal mercato etiopico.
Nel 1975 Barattolo impiegava 2.000 lavoratori, soprattutto donne. Ora quanti sono?
Oggi la Za.Er impiega 550 persone che rispetto a duemila possono sembrare poche, però è un buon numero.
Possiamo ancora crescere. La nota positiva è che i lavoratori sono tutti eritrei e l’85 per cento donne. Con due eccezioni, il direttore generale che ha il compito di far crescere la produzione che è indiano, e la tecnica di confezione incaricata di migliorare la qualità.
Il nostro obiettivo è raddoppiare la produzione nei prossimi due, tre anni.
Un obiettivo che porterebbe ad altre assunzioni?
Certo. Potremmo arrivare fino a mille persone. Nella confezione è importante la manodopera e gli eritrei sono molto bravi, se ben istruiti e coordinati.
Noi al personale insegniamo un lavoro qualificato. La maggior parte arriva senza esperienza.
Come sono le condizioni di lavoro?
Le condizioni di lavoro sono buone e i salari superiori alla media del Paese.
Da sottolineare che le donne, come dicevo prima, non solo rappresentano l’85% della forza lavoro, ma ricoprono anche la maggior parte delle posizioni manageriali e di staff.
Anche per questo alle famiglie diamo un servizio in più, l’asilo per i loro figli e borse di studio per la Scuola Italiana. Oggi abbiamo circa 100 bambini, tra interni ed esterni, ed è previsto l’ampliamento dello spazio nel 2018. Così potremo accoglierne circa altri quaranta.
Come accennavo, seguiamo il percorso dei bambini che crescono. Possono fare il test per la Scuola Italiana. Se lo superano e sono accettati, sono aiutati da noi. Se è necessario anche assistiti nel pomeriggio per i compiti. Il numero dei ragazzi aiutati è destinato a crescere, cosa di cui siamo contenti perché rispecchia la nostra mentalità.
Siamo contenti di poter dare borse di studio ai figli dei nostri dipendenti.
Le donne che lavorano in Za.Er sono capifamiglia? Il loro è lo stipendio più importante?
Spesso è così.
Come vede il futuro dell’Eritrea e della Za.Er?
Noi continuiamo a pensare che l’Eritrea e gli eritrei meritino di più di quanto hanno oggi. Penso che gli eritrei mentre combattevano per l’indipendenza sognassero un buon futuro. Senza dimenticare la parte migliore del loro e del nostro passato.
Hanno dovuto fare i conti con tutta una serie di situazioni, anche esterne, che ne ostacolano il processo di crescita.
Oggi però ci sono condizioni geopolitiche perché l’Eritrea giochi un ruolo importante anche se lo scenario internazionale resta complesso e difficile.
Certo la collaborazione con l’Italia ne sosterrebbe lo sviluppo.
È importante scegliere i giusti interlocutori e costruire rapporti basati sulla fiducia reciproca.
Noi, come azienda, cerchiamo di impegnarci, nel nostro piccolo, perché questo avvenga.
Lavorate per un miglior rapporto tra Eritrea e Italia?
Si. Con uno scenario internazionale che evolve positivamente, l’Italia potrebbe essere un interlocutore per l’Eritrea, paese con una posizione geografica strategica, cosa che non possiamo ignorare.
Nell’area COMESA ci sono circa 600 milioni di persone.
Italia e Europa potrebbero avere un ruolo importante in Eritrea, soprattutto cercando di sbloccare il rapporto con l’Etiopia.
Ma l’Italia cosa fa?
Purtroppo in Italia c’è una totale ignoranza su questi argomenti. Una mancanza di conoscenza della storia, nostra e dell’Eritrea.
Una storia che si vuole dimenticare anziché farla diventare un contributo per il benessere del paese.
Questo è il motivo per cui, proprio in Italia, l’Eritrea è dimenticata, ostacolata. Se oggi si chiede dov’è l’Eritrea, in Italia molti non sanno rispondere.
La confondono con l’Etiopia…
Una rimozione sbadata?
La storia non si può ignorare. Gli eritrei conoscono la storia e il rapporto Eritrea-Italia. Senza salvare in corner il colonialismo, va detto però che, in Eritrea, gli italiani si sentivano eritrei e gli eritrei italiani.
Per questo motivo gli eritrei hanno vissuto male il tradimento italiano. Loro apprezzano la cultura italiana. Altrimenti non farebbero la coda per andare alla Scuola Italiana di Asmara. Hanno una conoscenza e un attaccamento all’Italia molto più forte di quello richiesto dallo ius soli.
Però, paradossalmente, con la pessima gestione del processo migratorio, un eritreo in Italia si sente screditato. Non si sente riconosciuto. Quindi se ne va altrove, in Germania o in Svezia. L’Europa, più di noi, sceglie di accogliere gli eritrei, onesti e bravi. Noi invece non li aiutiamo.
Marilena Dolce
@EritreaLive
È possibile avere un indirizzo email della azienda?
I contatti Za.Er li trova nel link dell’articolo, anche quelli del brand Dolce Vita