EritreaLive intervista Gianni Biondillo, perché “L’Africa non esiste”?
Uscito recentemente l’ultimo libro dello scrittore Gianni Biondillo, non un giallo ma una serie di racconti nati come articoli di giornale, si intitola “L’Africa non esiste”, come disse Ryszard Kapuscinski.
Lo incontro a Milano, per conversare di Africa, Eritrea, Europa.
Biondillo, spiega nel libro, ha conosciuto la sua prima Africa, l’Eritrea, qualche anno fa, andandoci per scrivere un reportage, poi dimezzato perché la testata ha chiuso pubblicandone solo una parte.
L’Eritrea, però, gli è rimasta nel cuore, entrando da protagonista, qualche tempo dopo, nelle pagine de I materiali del killer, un giallo nel quale l’ispettore Ferraro, uomo milanese, di Quarto Oggiaro, si trova a indagare su una strana vicenda africana.
Lo sfondo del giallo italo-eritreo porta il protagonista Heilè ad arrivare in Italia dove troverà molti paesaggi interiori di un paese simile al suo. I flashback ne raccontano la vita, tra HazHaz, la terra rossa di Asmara e Massawa, città bellissima sul Mar Rosso, calda e struggente. Figlio di un ferroviere Heilè rappresenta il rovescio della medaglia del sentimento di Biondillo scrittore che, in Africa, ad Asmara, si sente a casa proprio perché tutto sembra familiare, atmosfere, luoghi, architetture, nomi, tutto ricorda un’Italia di provincia.
Non c’è rimpianto o nostalgia di un passato coloniale ma il piacere di trovarsi in una città, Asmara, che non imita nulla, accogliendo lo straniero con l’abbraccio delle cose belle.
L’Africa non esiste nel senso che il pregiudizio che abbiamo sull’Africa è figlio di una visione distante, di un continente che ci sembra tutto uguale, con giraffe, leoni, Tarzan, liane, tutto questo è mitologia, non ha nulla a che vedere con la realtà.
L’Africa è un continente immenso, non può essere immaginato in maniera unitaria.
Come scrivo nel libro, la distanza tra nord e sud dell’Africa è la stessa che esiste tra Portogallo e Cina, noi non pensiamo che un portoghese e un cinese siano la stessa cosa, neppure un siciliano e un lappone, entrambi in Europa. Sono universi culturali molto distanti.
In questo senso dico che l’Africa non esiste, non esiste un’Africa omogenea. È un mondo fatto di tantissime realtà.
Anche l’Eritrea che è un paese piccolo con moltissime religioni, etnie, popoli, ha al suo interno una profonda diversità, se questa diversità c’è in Eritrea, figuriamoci come può essere in paesi più grandi come l’ex Congo Belga (ndr, ora Repubblica democratica del Congo), il Ciad…
Tu scrivi che in Etiopia dicono di non essere africani ma etiopi, snobbando i neri del Kenya, perché loro sì sono scuri e africani. Sfumature di nero?
Ognuno dà dell’africano a qualcun altro.
Il colore della pelle è importante anche per loro.
Gli etiopi rivendicano la loro millenaria indipendenza, tranne la piccola parentesi italiana non sono mai stati colonizzati. Sono un paese con un seggio a Ginevra, alla Società delle Nazioni, quindi ci tengono a distinguersi. Ad Addis un dirigente che lavorava in un grattacielo nuovo mi ha detto, per marcare la distanza, che mentre nel resto dell’Africa si canta in inglese o francese, lingue dei colonizzatori, in Etiopia si canta in amarico.
Però si sentono africani quando guardano gli europei, perché più ti allontani da un posto più lo vedi omogeneo è quando ti avvicini che vedi le differenze.
Hai incontrato l’Africa in età adulta, però, leggendo il tuo libro, mi pare di cogliere un mal d’Africa?
Sì, sono andato in Africa per puro caso, non ero il bambino che sognava l’Africa.
Ho sostituito una persona che non avrebbe potuto andare e sono partito per Asmara trovandomi per la prima volta contemporaneamente in Africa e “non” in Africa, perché la contraddizione è che Asmara è in Africa, però sembra una città italiana, con abitudini e modi di fare nei quali riconosci l’origine italiana.
In questo senso è stato affascinante l’incontro con il continente, l’esserci e il non esserci.
Il mal d’Africa non so spiegare cosa sia, però la vita à misteriosa e, da allora, dopo quel primo viaggio, sono tornato molte volte in Africa e ogni volta avevo la sensazione di saperne sempre meno, ho paura è che se ci tornassi molte altre volte diventerei totalmente ignorante in fatto d’Africa.
La tua prima Africa dunque è stata l’Eritrea, cosa pensi della tragedia dei suoi giovani, della tragedia di Lampedusa dello scorso 3 ottobre?
Una tragedia autentica. Girando in Eritrea ho provato una sensazione di sicurezza assoluta garantita dal controllo del territorio. Un piccolo paese che vive una frizione con il suo vicino, i “cugini” dell’altopiano etiope. Parlano la stessa lingua, pregano lo stesso Dio. Sono simili molto più di quanto non lo sia l’Etiopia con il sud del proprio Paese. I ragazzi etiopi dell’altopiano mi dicevano di guardare all’Eritrea come vicini di casa, mentre sentono estranei i somali che, pur vivendo in Etiopia sono un altro popolo per abitudini, usi e costumi, religioni.
Oggi l’Etiopia, un Paese con 80 milioni di abitanti è una potenza africana, una potenza economica con un prodotto interno lordo che cresce a dismisura, l’Eritrea, invece, nonostante la guerra di liberazione, è in una situazione internazionale bloccata.
I ragazzi però non li fermi e l’Eritrea sta perdendo un’intera generazione di giovani talenti, una cosa che fa piangere il cuore.
Secondo me l’Eritrea avrebbe le condizioni per migliorare la propria situazione. È un paese piccolo, la capitale Asmara è una città di una bellezza incredibile, niente a che vedere con la bruttezza di Kampala e della stessa Addis Abeba, città caotica e priva di fascino.
Asmara è un gioiello, come Massawa che resta un luogo affascinante, nonostante le distruzioni belliche e le Isole Dahlak, incredibili per bellezza.
Il turismo potrebbe essere l’inizio di una nuova strategia per cambiare l’economia del paese, però è la politica che deve deciderlo.
Secondo te l’aiuto dell’America all’Etiopia e nello stesso tempo gli ostacoli delle sanzioni (2009) all’Eritrea hanno avuto un peso nelle relazioni tra i due paesi?
In realtà in Etiopia si dà per scontato che l’Eritrea sia un pezzo d’Etiopia.
È incomprensibile per un etiope che l’Eritrea voglia rimanere “isolata”, non solo per lo sbocco al mare ma anche per un sentimento di appartenenza reciproca.
La cosa strana è che l’Eritrea l’abbiamo inventata noi colonialisti italiani, prima non aveva un nome, erano solo popoli che vivevano in quel territorio, noi l’abbiamo chiamata erytros, dal rosso del mare. E in qualche modo abbiamo creato un orgoglio di popolo.
Veramente il territorio che l’Italia ha chiamato Eritrea un nome l’aveva, Midri Geez, cioè terra dei liberi, ma di questo i libri di storia non riportano notizia…
Però non c’era un confine…
Erano ancora divisi in clan, più o meno forti, più o meno numerosi, nell’orbita dell’occupazione turca ed egiziana…
Oggi però c’è un’ossessione identitaria che non aiuta…
Ma gli Usa…
Sì gli Stati Uniti sono interessati ad avere uno stato potente, grande, ricco anche d’iniziative. Addis Abeba è immenso cantiere. In Africa ci sono cinesi ovunque, sono pragmatici, fanno economia.
Non giudicano le società…
Se ne disinteressano, fanno business. Anche in Ciad, ogni tanto chiedevo dove fossero i cinesi, perché sono invisibili, eppure ci sono. Ho trovato anche postriboli con ragazze cinesi. La loro presenza quando non è nelle persone è nelle merci, le stesse che incontri da noi, al mercatino del sabato. Le stesse che incontri in tutto il mondo.
Come va un giornalista in Africa, freelance o embedded?
Ma io non lo so, perché non sono un giornalista… sono diverso per forma mentis, il giornalista cerca la notizia, i dati, sta sull’attualità. Io sono uno scrittore, cerco le storie, le narrazioni.
Sì però sono storie che escono su giornali nazionali, che fanno opinione…
Sì ma anche se pubblicate precedentemente su riviste non invecchiano, puoi rileggerle oggi anche se sono di 5 anni fa perché quello che ho fatto è stato raccontare di me, del mio disorientamento, di me in luoghi strani, diversi, estranei e rendermeli familiari nella memoria e nel cuore. Quello che posso dire, che so, è che i giornalisti vanno sempre meno freelance e sempre più embedded, anche perché è più comodo…
E poi perché i giornali non pagano…
Sì, i giornali non pagano più, allora si va invitati da una ong che ti paga il viaggio, anche il fotoreporter spesso è pagato dalle ong per fare un reportage fotografico, quindi va a finire che non puoi essere completamente sincero. Ci sono tutti questi problemi che non sono da poco, né dal punto di vista della comunicazione né dell’etica professionale. Io però racconto sempre quello che vedo, senza giudicare. Così anche per le periferie di Milano. Questo non evita alla mia etica e alla mia morale di uscire, non evita che si capisca il mio modo di vedere le cose. Leggendo questo libro i miei fastidi si sentono. Per esempio i fuoristrada bianchissimi delle grandi organizzazioni umanitarie, in un posto dove c’è penuria d’acqua è un fastidio sentito, che esce nel mio libro .
Del resto se non vado, non perdo nulla. Possono non invitarmi mai più, va be’.
Beh le ong sono tante…
Io non perdo niente, ho bisogno di essere sincero.
Ho visto spesso con fastidio quanto le ong possano diventare uno stipendificio, quanto diventi un modo per far carriera utilizzando la solidarietà. Più di una volta ho avuto fastidio autentico, decidendo di non andare a feste organizzate in posti di cooperanti, alberghi a 5 stelle, feste in piscina. Però ho anche visto persone che, nelle ong piccole, dove puoi controllare la filiera, lavorano bene. Puoi vedere come si muovono i soldi dove partono e dove arrivano.
Ricordo un ospedale nel cuore dell’Uganda dove tutti i medici erano ugandesi con un dirigente italiano che era, casi della vita, un lettore dei miei romanzi.
A un certo punto mi mostra un bellissimo macchinario, e mi dice sconsolato: «questo è un regalo che viene dall’Italia», «dovresti essere contento» dico io «siamo in un posto fuori dal mondo e tu hai questa bella apparecchiatura» e lui risponde: «i soldi per comprare questo macchinario qui sarebbero stati più utili per pagare il personale, le infermiere. Avrei avuto bisogno di quei soldi per gestire ciò che già c’è, per pagare la pulizia, la sicurezza, i medici. Il problema è che, quando raccogli soldi dall’Italia, non puoi dire che servono per il paramedico e per pulire i reparti. Loro vogliono inviare un cadeau, ma se una vite si rompe, chi la sistema? Tengo l’apparecchio fermo, non ho i soldi per la manutenzione».
Però la nostra coscienza è pulita, penso.
In un altro posto mi dicono che avrebbero avuto bisogno di banchi, non di costruire scuole nuove…
Nel libro “L’industria della carità” di Valentina Furlanetto si racconta di bambini etiopi adottatati, in buona fede, da famiglie italiane che poi scopriranno che non erano orfani. Anche le adozioni possono diventare un business?
Quando il controllo è diretto puoi capire cosa succede, viceversa è difficile sapere dove stanno andando i tuoi soldi. Puoi trovarti in un meccanismo diverso da quello che tu pensavi fosse, pensi di fare del bene dove invece si fa altro.
In questo momento io sono dell’idea che l’Africa sia un luogo di cui non ci rendiamo conto, dall’Europa, del dinamismo.
E questo significa che sarebbe assurdo che rimanessero, al suo interno, stati che non capiscono che questo è il loro momento, perché se non lo capiscono ora si troveranno molto indietro.
Lo sviluppo porterà innovazione e ricchezza ma anche corruzione e disparità.
Quando la disparità diventa evidente, quando non siamo più tutti poveri, viene fuori una situazione che crea tensione sociale e va gestito politicamente.
Quello che ancora non ha capito chi sta qua è che a noi conviene l’Africa, non dovrebbe essere percepita come un onere, come un peso ma come un’occasione.
Conviene più a noi l’Africa che all’Africa l’Europa?
Sì ci conviene un’Africa più ricca, perché noi stiamo diventando più poveri e più vecchi.
Continuiamo invece a pensare all’Africa come a un posto di disperazione, di povertà, di gente che arriva e ci invade?
Sì, questa è l’immagine diffusa, in realtà l’Europa del business si è accorta della ricchezza dell’Africa e vorrebbero poter investire di più. Intendo dire è un mercato che chiederà sempre più merci. I giovani sono la loro arma vincente. L’età media in Italia è 46 anni in Egitto 26, non c’è storia, il futuro è dei giovani.
Cosa pensi del metro di giudizio occidentale sulle forme politiche in Africa?
La nostra idea di democrazia è sempre elastica. Ci vantiamo del fatto che la maggior parte di stati del mondo siano democratici, con un regime elettorale all’apparenza democratico. Per molti anni ci siamo convinti che esistessero democrazie in alcuni paesi del Sud America che erano tutto tranne che democratici.
Anche l’Africa è piena di democrazie apparenti: quanto e fino a che punto è democratica veramente l’Etiopia? Ufficialmente lo è, però ho constatato un dirigismo poco democratico. E questo è tipico della maggior parte dei paesi africani, anche quando parliamo delle grandi democrazie dell’Oriente e dell’Asia, in realtà spesso c’è una realtà di casta molto radicata.
In Cina invece è successa una cosa imprevedibile. La Cina ha dimostrato quello che sembrava indimostrabile, che uno stato fortemente centralista e autoritario potesse produrre la più grande società capitalista del mondo.
Abbiamo sempre associato il capitalismo alla democrazia, da Max Weber in poi abbiamo pensato che una cosa non potesse esistere senza l’altra. La Cina ha fatto a pezzi quest’idea: il capitalismo avanzato può esistere anche in uno stato fortemente centralista.
Questo fa tremare le vene ai polsi, perché non è detto che dove c’è democrazia ci sia sviluppo economico e dove c’è sviluppo economico ci sia democrazia.
Se salta quest’equazione è tutto da rivedere.
Io sono sempre più interessato alla democrazia rispetto allo sviluppo economico.
Però dev’essere una democrazia autentica, non di facciata.
Molto spesso le democrazie cui facciamo riferimento sono un po’ finte, era democrazia quella dell’Egitto? Lo è adesso?
Ma un Paese quando è pronto per la democrazia?
Sicuramente non la puoi esportare con le armi, non la puoi imporre.
Ci dev’essere una predisposizione culturale, antropoloigica.
La democrazia non è una formula che si applica, è un percorso che devi fare. Devi stimolare un’apertura del pensiero, della molteplicità del pensiero.
Certe posizioni rigide, bloccate, tetragone sono suicidi culturali. L’Etiopia è una democrazia apparente, non lo è secondo i nostri canoni, però sempre di più si sta aprendo a condizioni economiche, commerci con l’estero e, anche contro la volontà politica, probabilmente, crescerà sempre più una volontà culturale che vorrà una democrazia meno apparente più reale.
Il problema è che spesso giudichiamo gli altri, incapaci di giudicare noi stessi.
Tu dici che l’Etiopia sta cercando una via democratica…
Africana…
Ma al suo interno sono tutti contenti?
No, non è così, me ne accorgevo. Una parte del paese, la più numerosa, l’Ogaden, gli Oromo, i somali, si sentono “accorpati”.
Landgrabbing o greeneconomy, cosa succede in Etiopia?
Landgrabbing. Ma sai, non possiamo applicare il nostro sistema mentale.
In Etiopia c’è un atteggiamento spregiudicato, aggressivo per la gestione della terra, così come accadeva in molte realtà del Sud America, dove apparenti democrazie portavano via ai nativi enormi appezzamenti per pochi ricchi bianchi. Nonostante ciò però oggi, se pensi al Brasile, pensi a uno degli stati più ricchi… allora è un percorso lungo, quello che succederà lo vedranno i nostri figli.
Non ci sono formule per l’Africa, un pachiderma per niente immobile,
Che succederà alla Nigeria che ha il più alto sviluppo demografico dell’Africa? Saranno 500 milioni di persone, cosa faranno?
Ma l’Europa in che modo capisce l’Africa?
Io quando tornavo dai viaggi e parlavo di Kony, (ndr, Joseph Kony, guerrigliero ugandese a capo di un criminale esercito chiamato “Resistenza del Signore”) nessuno ne sapeva niente. Poi è arrivato il video “Kony 2012” dell’americana Vimeo ed è stato visto in tutto il mondo. Gli americani sono bravissimi a comunicare e a tenere bene e male separati, c’è il bianco e c’è il nero, non ci sono sfumature di grigio nella loro cultura, sono Hollywood.
Ogni volta che vedo un loro film so già come va a finire, il bene trionfa sul male…qualunque film non solo i western. I cattivi sono musulmani e i buoni cristiani anche se poi scopri che Kony non era così…
In realtà non è così semplice, i fatti non sono mai solo religiosi ma hanno a che fare con condizioni molto più complicate.
Allora, come Eritrealive, vorrei chiederti se gli eritrei sono i nuovi indiani d’America?
Certo, sappi però che verrà un momento in cui gli indiani diventeranno buoni…
Nell’immaginario a un certo punto si è arrivati a questo, i cattivi erano le giacche blu…
Come in Soldato Blu?
Sì, c’era la nostalgia di averli sterminati, un grande classico…
La vera contraddizione però quando si torna dall’Africa è parlare di campi profughi, di bambini, di sottonutrizione e far passare l’immagine di un’Africa sempre uguale: drammatica, pietista, solidale. Basta, non è solo questo. Però è vero che quei bambini sono denutriti, che ci sono campi profughi, come puoi dare una mano?
Ci vorrebbe una visione più utilitaristica, meno veterocattolica del lavacro della coscienza. Io non ho risolto questa contraddizione con me stesso.
Ogni luogo ha bisogno di tempo per esser capito, si può giudicare un paese africano con un viaggio di quindici giorni?
No. Io nel libro dico che è come se invitassi un abitante dell’Africa, lo portassi in Italia, gli facessi vedere un campo rom, una periferia degradata, una zona industriale dismessa, per poi chiedergli: «com’è l’Italia?»
Però grani dei bellezza restano, anche in un campo rom o in una zona degradata. Quelli sono grani di bellezza, di ricchezza culturale e potenza che puoi trovare anche in quindici giorni, anche da turista Alpitur, se riesci a toglierti le fette di salame dagli occhi riesci sempre ad avere una visione del Paese, se poi ti predisponi a questo, se riesci ad avere un rapporto empatico con le persone e le cose, entrando in sintonia, senza giudicare, allora nonostante si vedano luoghi estremi, come mi è capitato in Africa, si può correggere la complessità, perché ogni volta ho capito che era una complessità sempre più grande di quella che io riuscivo a vedere.
Banalizzare è un errore catastrofico.
Per concludere, che idea ti sei fatto della situazione che attualmente sta vivendo l’Eritrea?
Gli eritrei sono un popolo meraviglioso, bello, che vive in un luogo fantastico che potrebbe essere per loro fonte di reddito, viste le condizioni geografiche: mare, porto, altopiano coltivabile, pensa a quello che è stato fatto in Israele. Sono convinto che basterebbe poco. Però se i giovani scappano la loro è una risposta implicitamente politica a una politica che non ha saputo dare risposte. Anche se resta l’orgoglio di essere eritrei.
La politica deve trovare le soluzioni. Non si deve fare vittimismo però neppure semplificare e dire che l’unica soluzione è legarsi ancora all’Etiopia, questa non è un’alternativa.
In questo momento chi scappa è “clandestino” questo, secondo te, è un problema che la nuova Europa insediata a Bruxelles dovrebbe risolvere?
Senza ombra di dubbio.
Grazie e arrivederci, in attesa del prossimo libro…
Marilena Dolce
@EritreaLive
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