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Eritrea, sopravvissuti al naufragio nel Canale di Sicilia i tre eritrei imbarcati

Marilena Dolce
24/04/15
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Nella notte tra il 18 e il 19 aprile un’imbarcazione carica di persone partita dalla Libia, a 60 miglia dalla costa invia, con un satellitare, una richiesta d’aiuto cui risponde la Guardia Costiera italiana che manda in soccorso un mercantile portoghese. Il mercantile però assisterà impotente al ribaltamento del peschereccio provocato, dichiara il capitano della King Jacob, dall’improvviso spostamento delle persone su un unico lato della barca.

Così nel buio, squarciato dai fari, cominciano i soccorsi cui parteciperanno, oltre alla Guardia Costiera italiana, Frontex, la Marina Militare, i pescatori di Mazara del Vallo e le imbarcazioni inviate da Malta.

La situazione e le cifre che raccontano l’accaduto sono subito drammatiche: 700, forse 950 le persone a bordo, solo 24 i corpi ripescati e 28 i sopravvissuti, persone che hanno visto la morte in faccia.

I giornali scriveranno, ancora una volta: “ecatombe”, citando le dichiarazioni dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Domenica mattina la Guardia Costiera sospenderà la ricerca dei dispersi perché, si dice, il mare non restituirà più nessuno.

I morti sono accolti a Malta, mentre il viaggio dei vivi prosegue per Catania. Il loro è un destino pesante segnato dalle scene crudeli del naufragio e dal dovere di raccontare quello che l’Europa fatica a capire: chi sono, perché partono, perché affrontano il pericolo di questi viaggi?

Le prime informazioni sulle persone coinvolte nel naufragio arrivano da uno dei sopravvissuti, un uomo di 33 anni, originario del Bangladesh, ricoverato a Catania. É lui a dire che sulla barca c’erano circa 950 persone, divise su tre livelli, quello più basso, la stiva, per chi aveva pagato meno. Qui gli scafisti, un siriano e un tunisino li avevano rinchiusi, quindi per loro non c’è stata nessuna possibilità di salvezza.

Ma da quale paese arrivano “i sommersi”, per citare Primo Levi? Quanti giungevano dal Corno d’Africa, dall’Africa Sub Sahariana, dal Medio Oriente?

Nessuno lo sa. Il mare ha avvolto i corpi senza che lasciassero tracce.

Martedì scorso però Adrian Edwards, portavoce UNHCR a Ginevra, dirà che l’imbarcazione naufragata «partita da Tripoli, con 850 persone», «molti bambini» aveva a bordo «circa 350 eritrei». Nessun numero delle vittime di altre nazionalità, solo un elenco di paesi: Siria, Somalia, Sierra Leone, Mali, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio ed Etiopia.

Trecentocinquanta eritrei morti sarebbe un numero molto alto ma senza corpi, senza documenti come hanno potuto stabilire di che nazionalità erano i dispersi?
Il numero complessivo, spesso approssimato, è conosciuto da chi s’imbarca ma la nazionalità dei compagni di viaggio?

Ovviamente non esiste un elenco ufficiale con i nomi dei “passeggeri” che per conoscersi dovrebbero essere dello stesso gruppo, parlare la stessa lingua, aver condiviso parte del viaggio.

Una fonte che il giorno successivo alla tragedia si trovava a Mineo, in Sicilia, dice a Eritrea Live che sull’imbarcazione c’erano tre ragazzi eritrei, salvi e in buona salute.

La loro testimonianza, continua la nostra fonte, è che sulla barca non ci fossero altri ragazzi eritrei.

Anche il numero complessivo, secondo loro, è inferiore. C’erano 150 siriani, 100 somali e 190 cittadini provenienti dal Bangladesh. Per il resto il racconto dei ragazzi coincide con quanto riferito dall’UNHCR. Loro si sono salvati perché erano in alto, invece chi stava sotto, chiuso nella stiva, non ce l’ha fatta.

Non è stato possibile contattare a Catania nessun rappresentante dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR) per sapere da che fonte arrivasse il numero di eritrei morti sulla barca.

L’ufficio di Roma però, contattato telefonicamente, riferisce che si tratta di un’ipotesi, una possibilità, ammettendo che meglio sarebbe stato usare il condizionale perché non ci sono notizie certe su quel numero.
Il funzionario dell’Alto Commissariato di Roma, una persona cortese, che conosce l’angoscia dei paesi i cui cittadini sono coinvolti in terribili tragedie, mi spiega la concitazione di queste giornate, le moltissime telefonate, ultima quella di una radio del Senegal che chiede dettagli e notizie su morti e sopravvissuti.

Le notizie in questi casi sono cruciali.
In Italia la comunità eritrea ha inviato subito una lettera all’Alto Commissariato, alle istituzioni, ai giornali, per chiedere  «come mai si sa quanti sono gli eritrei» pur senza averne trovato i corpi? Chi ha diffuso questa notizia? L’UNHCR ha potuto vedere documenti, ha testimonianze certe?

Lo spirito degli eritrei con cui ho parlato è solidale con il dolore di quanti piangono chi ha perso la vita nella tragedia di sabato scorso. Sanno che avrebbero potuto essere eritrei, ma se non lo sono perché diffonderne la notizia? A quale scopo? Perché allarmare l’Eritrea e gli eritrei che vivono all’estero?

Come se non bastasse l’ansia per figli e parenti che in cerca di un futuro migliore partono dall’Eritrea sfidando il pericolo della morte nel deserto, in mare, per mano dell’ISIS. Come se non bastasse la tristezza di sapere che a far del male alla propria gente c’è anche qualche eritreo diventato trafficante di uomini.

L’Italia invece s’interroga su altro, chiedendosi, insieme all’Unione Europea, quanto e come potenziare Triton per proteggere le frontiere. A chi tocca tenere i profughi che, con la compiacenza del trattato di Dublino, se non identificati, possono proseguire il viaggio senza l’obbligo di fermarsi nel primo paese. Se il loro arrivo porterà malattie e se tra loro si nasconderanno i terroristi.

Secondo Amnesty International, dati 2014, centocinquantamila persone si sono imbarcate dalla Libia per raggiungere l’Italia via mare, perché?
Per tre ragioni sulle quali si dovrebbe riflettere: la chiusura delle frontiere europee, la fuga da situazioni critiche nel Corno d’Africa e in Medio Oriente, la mancanza di uno stato in Libia.

Tuttavia, secondo l’UNHCR il rischio invasione per l’Italia è lontano: l’86% dei rifugiati è accolto nei paesi in via di sviluppo, cioè si ferma nei paesi vicini e solo il 10% arriva in Europa. Il paese europeo più esposto per l’accoglienza profughi è la Turchia che ha accolto 600 mila rifugiati siriani.
La Germania ha accolto 190 mila profughi, la Francia 232 mila, la Svezia, che ha meno abitanti della Lombardia, 114 mila, l’Italia 78 mila, collocandosi al sesto posto in Europa.

I richiedenti asilo arrivano in Italia per poi proseguire verso l’Europa del Nord, quindi la domanda: «dobbiamo accoglierli tutti?» per numeri e interesse di chi dal nostro paese transita, non sembra avere senso.

Poche ore fa la procura di Catania ha reso noto i nomi dei 26 migranti sopravvissuti al naufragio, «autorizzandone la pubblicazione ai fini di una completa informazione dei congiunti». Per richiedere informazioni, la procura ha attivato un indirizzo di posta elettronica: naufragio.wreck.procura.catania@giustizia.it. Attivo anche il canale della Croce rossa di Catania, contatto telefonico (389 3432063) e casella mail (rfl@cricatania.it).

Vorrei concludere citando Seyla Benhabib: «i pregi delle democrazie liberali non consistono nel potere di chiudere le proprie frontiere, bensì nella capacità di prestare ascolto alle richieste di coloro che per qualunque ragione bussano alle loro porte».

Marilena Dolce

@EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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