Eritrea, lacrime e lutto
Domenica 6 ottobre, la comunità eritrea italiana si stringe forte per piangere i propri morti.
A Milano la commemorazione è stata religiosa e laica, pregando insieme e ascoltando un breve comunicato, con gli ultimi aggiornamenti sulla situazione a Lampedusa.
Non ci sono bare allineate ma le luci piccole e tenaci dei moltissimi lumini, una lunga striscia scarlatta che si allunga sempre più con l’incessante arrivo di persone.
La sala è piena, la gente divisa, come in chiesa, uomini da un lato, donne dall’altro.
Gli abiti femminili uniscono le due anime, l’Occidente con pantaloni, gonne, maglie e la tradizione con velo bianco, nezelah, sui capelli, sul volto, per asciugare le lacrime che non si fermano.
Gli sguardi sono persi, gli occhi bagnati, alcune donne recitano i nomi di coloro che sono scomparsi, quelli di cui si sa che hanno trovato pace nel Mar Mediterraneo. Per gli altri si prega, sperando.
Pochi parlano, c’è grande compostezza. Non è tempo di bilanci e recriminazioni, anche se verrebbe voglia d’infrangere la tristezza con un urlo che se ne sta in gola da giorni: mai più.
Asmara protegga i propri ragazzi dal richiamo di chi specula sui loro sogni, sulle loro speranze. Da chi denuncia, chiede cambiamenti, accusa e poi guarda in silenzio l’organizzazione di tratte sempre più pericolose: via Sinai, finché Israele non alza un muro, poi via mare, dalla Libia per portarli in Italia e farli procedere, ottenuto l’asilo, per l’Europa, quella ricca.
Si promettono case, lavoro, soldi, accoglienza in Paesi che per questi giovani hanno, a volte, un nome generico, sono “la Svizzera”.
Oggi è il momento della pietas, del dolore. Ma prima o poi bisognerà dire ai ragazzi eritrei che scappano dalla vita militare, in piccoli gruppi di “fratelli”, che corrono il concreto rischio di diventare merce per la feccia umana, scafisti, trafficanti di esseri, beduini, rashaida, faccendieri che operano nei campi profughi.
Gente che della speranza ha fatto un business.
Qualcuno ritiene che l’Eritrea indipendente abbia tradito le aspettative.
In Italia la sinistra che negli stessi anni si spegneva politicamente, ha immaginato per l’Eritrea la costruzione di una “città ideale”, con un’indipendenza “aiutata” che avrebbe arricchito il suo popolo, senza considerare minimamente il costo della distruzione ereditata e di quella nuova provocata dall’attacco etiope del 1998.
La colpa delle fughe è un sistema democratico dimezzato, dicono.
La realtà però è che l’Etiopia, dopo aver condiviso con l’Eritrea la lotta contro Menghistu, decide di non accettare, di fatto, la sua autonomia, ne invade i territori, bombarda la capitale ma l’Eritrea, ancora una volta, stupisce tutti, resistendo nella lotta impari.
Da allora la situazione si blocca: 1998-2000 guerra, poi accordi di Algeri favorevoli all’Eritrea che l’Etiopia non rispetta, decidendo di non liberare i territori.
Il peggio è che l’Eritrea, costretta a mantenere un esercito in allerta, da dieci anni disperde energie che, incanalate, porterebbero sviluppo e benessere al Paese, ne garantirebbero il futuro.
Oggi all’Eritrea si chiede un dialogo sulla “questione frontiera” ma perché?
L’accordo era per sua natura “definitivo e vincolante”, quindi il dialogo ci sarà quando l’Etiopia, dimostrando di rispettarlo, lascerà il territorio occupato. Come è stato detto da Asmara, qualche mese fa, «se al mattino l’Etiopia abbandona il territorio, al pomeriggio comincerà il dialogo».
È questa situazione, ignorata da media, che innesca il richiamo a uscire clandestinamente.
Un richiamo perverso che colpisce doppiamente il Paese, uccidendo i suoi figli e gettando addosso allo Stato la responsabilità di annientare il futuro.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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