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Eritrea, il paese apre le porte

Marilena Dolce
04/03/16
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Asmara, Harnet Avenue

Eritrea, Asmara, Harnet Avenue

Politici e giornalisti occidentali che vanno in Eritrea raccontano un paese diverso da quello descritto dalla stampa internazionale in questi ultimi anni.

Secondo gli svizzeri l’Eritrea non è una “Corea del Nord” africana, dicono, facendo vacillare il vecchio assunto di Jeune Afrique, dossier 2010.

Girando a piedi per le strade di Asmara oppure visitando in macchina altre zone del paese, riferiscono, non si ha l’impressione di viaggiare “nel cuore dell’ultima dittatura del continente”, sempre per citare Jeune Afrique.

Così Thomas Aeschi (UDC/ZG), Yvonne Frei (PS/AG), Claude Beglé (PPD/VD) Christian Wasserfallen (PLR/BE) e Susanne Hochuli (Verdi), politici svizzeri appartenenti a diversi schieramenti, al loro rientro, dopo il viaggio dello scorso febbraio, hanno detto di aver trovato in Eritrea una situazione diversa da come se l’erano immaginata.

Susanne Hochuli ha dichiarato a stampa e televisioni locali che “l’Eritrea non è la Corea del Nord”, aggiungendo che la situazione correntemente descritta è una bugia cui lei stessa aveva dato credito.

“Si pensa” ha detto la consigliera del Canton Argovia, “che ci sia uno stato che controlla tutti, mentre noi abbiamo potuto muoverci liberamente, abbiamo parlato con le persone, ne abbiamo conosciute molte e abbiamo chiesto tutto ciò che volevamo. Abbiamo ascoltato critiche aperte al regime e la richiesta di una stampa più indipendente”.

Anche Thomas Aeschi, UDC, una volta rientrato dal viaggio ha dichiarato che “l’Eritrea non è un inferno”. “Il motivo per cui molti abbandonano il paese” dice “è economico, perché”, continua, “non sarà un inferno ma neppure un paradiso in terra e, nell’immediato, offre minori prospettive ai giovani che conoscono, grazie a internet e alla televisione, lo stile di vita occidentale”.

La delegazione svizzera ha voluto vedere con i propri occhi “che situazione c’è nel paese da cui arriva il maggior numero di richiedenti asilo”, 9.666, secondo dati SEM (Segreteria di Stato della Migrazione), concludendo che sarebbe bene che la Svizzera riprendesse le relazioni diplomatiche con l’Eritrea.

Per questo motivo, al rientro, hanno scritto una lettera a Simonetta Sommaruga, attuale responsabile per l’immigrazione, per chiederle un incontro, consigliando l’invio di una delegazione dell’ufficio immigrazione, come fatto lo scorso anno da Inghilterra, Norvegia e Danimarca.

Molti politici e istituzioni che nei rispettivi paesi europei si occupano d’immigrazione, diventata, dal 2013, una patata bollente per l’Europa, sono stati negli ultimi due anni in Eritrea.

A novembre 2014 l’Eritrea, insieme a 28 stati dell’Unione Europea e con Libia, Egitto, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Gibuti, Somalia, Kenya e Tunisia partecipa a Roma alla conferenza chiamata “processo di Khartoum”, dal nome della capitale del Sudan dove aveva avuto inizio l’estate precedente.

Obiettivo del “processo” arginare i flussi migratori e conoscere meglio, ascoltando i singoli paesi, una situazione arrivata al limite, che sta provocando traffico di uomini e morte.

Questo il motivo che dà l’avvio al dialogo tra i paesi europei e, quando possibile, quelli da cui i migranti partono e transitano.

Negli stessi mesi, da agosto a ottobre 2014, una commissione danese per l’immigrazione va ad Asmara per rendersi conto di come si viva nel paese da cui provengono così tanti giovani richiedenti asilo.

Il metodo di lavoro è da manuale: osservano il paese e, garantendo l’anonimato, ascoltano fonti diverse, ambasciate occidentali, intellettuali eritrei, in patria e all’estero, organizzazioni internazionali, l’OIM (Organizzazione Internazionale Migrazione) e, naturalmente, il Ministero degli Esteri eritreo.

L’anonimato permette a ciascun intervistato di esprimere un’opinione personale, anche non in linea con quella ufficiale dell’organizzazione per cui lavora, oppure esprimere un parere negativo sul paese che ospita la propria rappresentanza diplomatica.

Il report è positivo. Nel paese, dicono, non c’è terrore, si circola liberamente, i check point sono pochissimi e solo nelle aree critiche, nei mercati ci sono frutta, verdura e merci varie. Soprattutto, scrivono, la ragione per cui la gente emigra è economica. Un’ambasciata occidentale dice che il 99,9% degli eritrei richiedenti asilo è migrante economico.

Dunque gli eritrei migrano dalla povertà.

I numeri dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, (UNHCR) collocano gli eritrei al secondo posto nelle classifiche dei migranti, subito dopo i siriani. Ricordiamo però che questi numeri sono il risultato delle dichiarazioni spontanee rilasciate per avere asilo e che, siccome agli eritrei viene accordato asilo politico per motivi umanitari, sono molti gli africani che si dichiarano eritrei, gonfiando le cifre.

Andreas Melan, ambasciatore austriaco ad Addis Abeba, ha dichiarato, lo scorso novembre, durante un’intervista ad APA (Austria Presse) che il 40% di migranti eritrei in Europa sono etiopici.

Però è reale che gli eritrei abbandonino la povertà del loro paese, una difficile eredità storica. Trent’anni di combattimenti (1961-1991) hanno stremato un paese in cui ancora oggi, in molte aeree, mancano acqua e luce.

Se i motivi dell’emigrazione sono, come viene detto, politici, certo balzano maggiormente agli occhi i problemi di politica internazionale rispetto a quelli di politica interna.

L’Eritrea conquista l’indipendenza nel 1993, cinque anni dopo, nel 1998, è attaccata dall’Etiopia, conflitto causato da un conteso confine che terminerà nel 2000, con una decisione internazionale favorevole all’Eritrea che l’Etiopia ignorerà e continua a ignorare.

Paradossalmente questa diventerà una situazione capestro per l’Eritrea, accusata dalle associazioni umanitarie internazionali di tenere in scacco il proprio paese obbligando i cittadini a un lungo servizio militare e a prestare servizio nazionale, quest’ultimo nato dopo l’indipendenza, per lavorare alla ricostruzione del paese.

Servizio nazionale “infinito e indefinito”, accusano queste associazioni, pagato troppo poco, non più compreso dalla generazione nata dopo l’indipendenza che non si sente in guerra ma che non vede in patria il proprio futuro.

A giugno 2015 la Commission of Inquiry on human right (COI) scrive un report basato su 550 testimonianze anonime di richiedenti asilo, ascoltati in paesi terzi, nel quale definisce “lavoro forzato” il servizio nazionale che diventa un “crimine contro l’umanità”.

“Abbiamo ridotto e iniziato a pagare il servizio nazionale” dice lo scorso dicembre a EritreaLive Hagos Ghebrewiet, responsabile del settore economico del partito, People’s Front Democracy and Justice (PFDJ), che aggiunge “la comunità internazionale strumentalizza un problema che andrebbe guardato alla radice. Perché è stato prolungato il National Service? Per il problema dei confini, risolto sulla carta ma che l’Etiopia si rifiuta di rispettare. Se la comunità internazionale risolvesse questo problema, se ne risolverebbero molti altri”.

A febbraio una notizia che la stampa internazionale ignora, allarma l’Eritrea: l’Etiopia sta muovendo ingenti truppe verso il confine eritreo, se così fosse, gli eritrei dovrebbero, ancora una volta, serrare le fila.

Per il momento, però, il paese sta aprendo le porte a politici e giornalisti stranieri per mostrarsi per quello che è, molto diverso dalle descrizioni di rapporti scritti all’estero.

Chi va in Eritrea vede un paese che, nonostante l’instabile situazione con l’Etiopia, non soffre la fame perché ha costruito dighe per trattenere l’acqua e migliorare i raccolti, contrastando la siccità. Un paese dove i pari diritti sono una realtà, che ha messo al bando la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Un paese nel quale i bambini sono vaccinati, la mortalità neonatale e infantile è bassissima, così come quella delle donne in gravidanza.

Un paese dove i giovani, anche i 5.000 che ogni mese, dato UNHCR, lasciano il paese, sono scolarizzati, a differenza dei loro nonni.

L’inizio d’anno ha segnato un punto positivo per l’Eritrea.
A gennaio l’Unione Europea ha siglato ad Asmara un accordo di cooperazione grazie al quale l’Eritrea riceverà 200 milioni di euro da impiegare soprattutto in campo energetico, per far progredire lo sviluppo del paese.

Un paese, dice Hagos Ghebrewiet, che sta crescendo del 3, 3.5% all’anno e che, “con maggiori risorse, prima tra tutte l’energia, potrà migliorare il proprio sviluppo, investendo non solo nelle risorse del sottosuolo, oro, rame zinco ma anche nell’agricoltura, nella pesca e nel turismo”.

Il lavoro non manca, in Eritrea non c’è disoccupazione. L’obiettivo è dare ai giovani una buona occupazione che permetta loro, dopo gli studi, di vivere e fare progetti nella propria terra.

Sulla situazione del paese Yemane Ghebreab, PFDJ, (People’s Front for Democracy and Justice) intervistato da EritreaLive dice che “l’Italia e l’Europa dovrebbero modificare il loro atteggiamento verso l’Eritrea che non è un problema da risolvere ma un’opportunità per investimenti”.

“Il problema dell’immigrazione è legato anche all’atteggiamento dell’Europa e dell’Italia” continua Yemane “che, ritenendo che gli eritrei debbano essere protetti dal loro stesso governo, li accolgono a braccia aperte, non sapendo che sono le stesse persone che in estate tornano qua per le vacanze”. “Sul problema dei diritti umani” aggiunge Yemane “l’Eritrea non ha niente da nascondere”. “Se italiani ed europei venissero in Eritrea” continua “potrebbero constatarlo con i loro occhi”.

È uscito in questi giorni un lungo reportage della Reuters, con interviste a politici, ministri, diplomatici occidentali e gente comune. Quello descritto è un paese che accanto a vecchi problemi, confine occupato e servizio nazionale, registra importanti novità, il finanziamento europeo e la visita a un carcere eritreo da parte di una delegazione dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani.

Se questo è il nuovo corso non saranno più possibili posizioni scettiche come quella di Pascale Bruderer (PS/AG). La Bruderer ha dichiarato ai media locali di non aver partecipato al viaggio con i colleghi per “non farsi un’immagine distorta dalla situazione in loco, perché” spiega “gli incontri con rappresentanti del governo e non con la gente le avrebbero impedito di avere un’opinione reale del paese”.

Finora il cordone sanitario teso dall’Occidente intorno all’Eritrea ha filtrato notizie e immagini, possibilmente in bianco e nero, per consegnare a editori, organizzazioni internazionali e governi, ciò che si aspettavano.

Come scritto dalla Reuters, riferendo l’opinione di alcuni diplomatici, una situazione d’isolamento facilitata dallo spirito del far da sé eritreo, il “go it alone” di un paese forgiato da trent’anni di lotta e una vittoria raggiunta con le proprie forze, grazie al coraggio e alla determinazione di uomini e donne.

Il nuovo corso e le nuove relazioni tra Eritrea ed Europa, per la necessità di trovare insieme la migliore soluzione per il problema dei migranti, stanno togliendo l’Eritrea dal cono d’ombra in cui è stata a lungo relegata.

L’Eritrea, un paese laico, che permette a chiunque di professare la propria fede, con una popolazione di circa sei milioni di abitanti, appartenenti a nove diverse etnie, divisa tra musulmani e cristiani, senza guerre di religione al suo interno, è un paese tranquillo in una regione calda.

Nonostante ciò dal 2009 è sotto sanzioni dell’Onu per un’accusa, finora senza prove, di aiuto al terrorismo somalo di Al Shabaab.

Oggi però, Russia, Angola, Cina e Venezuela hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC)  che il Gruppo di Monitoraggio Eritrea Etiopia, (SEMG) chiarisca la questione per cui sono state decise le sanzioni, rimarcando l’assenza di prove. Di ciò parlerà con il presidente la commissione per le sanzioni che si recherà tra poco in Eritrea.

Il futuro che l’Eritrea vuole per sé, stato piccolo in una posizione geografica strategica, è quello di rinascere, costruendo le case che ancora mancano, ristrutturando le città bombardate, accogliendo investitori stranieri per accelerare il processo di sviluppo necessario perché i giovani istruiti e volonterosi non debbano più cercare all’estero il proprio destino.

Marilena Dolce
@EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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