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Eritrea, diario di viaggio scritto a più mani

Marilena Dolce
22/03/14
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A novembre 2013 la Società Geografica Italiana ha organizzato un viaggio, scientifico e culturale, in Eritrea.

Lo scorso 26 febbraio a Roma, presso la sua sede, si è svolta una giornata di studi dedicata all’Eritrea, al suo rapporto con l’Italia e al tema “cooperazione, sviluppo e sostenibilità”.

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© EritreaLive, Roma, Società Geografica Italiana, Italia per l’Africa, cooperazione, sviluppo e sostenibilità nell’Eritrea di oggi

La giornata è stata, però, anche il momento, per alcuni partecipanti, di raccontare il loro viaggio, un’occasione da non perdere per arricchire i “nostri” diari, quelli dei lettori di EritreaLive.

Aprono il diario collettivo le bellissime fotografie raccolte da Gianfredi Pietrantoni (FAO) che raccontano sguardi, immagini, luoghi, colori e sentimenti di un Paese conosciuto, per la sua storia coloniale, prima ancora di esser visitato. Pietrantoni dice che è stato un viaggio diverso dai soliti per la presenza di partecipanti che potevano spiegare quanto si stava visitando, dal punto di vista geografico, geologico, storico o storico-militare come nel caso di Dogali, luogo della famosa battaglia.

Fotografie scattate con il cervello ma volute dal cuore o, pragmaticamente, riuscite bene per un fortunato “dito indice” dice Pietrantoni citando un famoso fotografo, poi continua: «quelle mostrate sono immagini di un Paese conosciuto in Italia durante gli anni Settanta, quando ancora ero universitario. Allora l’Eritrea lottava per l’indipendenza ».

«Durante il viaggio» continua Pietrantoni «ho potuto incontrare molti di loro, è stata un’emozione forte» conclude. Come emozionante è stato vedere Keren, la città di cui la sua famiglia conosceva la storia.

L’Eritrea, per gli italiani, spesso è un patchwork di sensazioni: private, personali, regionali, storiche, politiche, quasi sempre molto “calde”.

Dal punto di vista storico l’Eritrea è un Paese che ha vinto una sfida importante, è un Paese unito. Obiettivo raggiunto meglio, rispetto ad altri paesi africani, paradossalmente, grazie al colonialismo italiano, spiega Roberto Reali del CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche. Altro dato importante per capire il Paese è riconoscerne l’importanza geopolitica. L’Italia per comprendere l’Eritrea dovrebbe, dice Reali, da un lato abbandonare lo sguardo eurocentrico, dall’altro riconoscere lo spiccato senso d’identità, molto europeo, che la caratterizza

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© Gianfredi Pietrantoni, Asmara, Market Square, i portici del mercato e la stazione degli autobus

I racconti di viaggio che accompagnano lo scorrere delle immagini cominciano con la relazione di Rossella Belluso, Università di Roma «una geografa che parla da turista».

«Il Paese» dice «si è presentato con la pacatezza e la serenità della gente che conduce una vita d’altri tempi, nessuno però chiede o elemosina, c’è grande dignità, gli unici che chiedono qualcosa sono i bambini, ma non soldi, caso mai una penna. Ci siamo dispiaciuti di non averne portate abbastanza».

E poi: «Asmara, che dire?» continua «È una città bellissima che merita di diventare patrimonio dell’Unesco, una città sospesa nel tempo. Una città modello che forse non vede futuro, almeno questa è la mia sensazione» precisa.

E poi il paesaggio: «scendere da Asmara a Massawa, anche se i trasporti sono un problema. Non per noi» dice «che avevamo il supporto dell’Ambasciata [ndr, Italiana] e abbiamo fatto viaggi facilissimi, con navette che ci portavano dappertutto. Però da turista e da sola, avrei avuto molti problemi e questo non fa bene al turismo. E il turismo potrebbe far rinascere il Paese, un turismo sostenibile, non di massa, qualcosa che sia parte della tradizione e della cultura eritrea».

Conclude spiegando che la visita le ha regalato «immagini e sensazioni che non si cancelleranno più dalla mente» che non si troveranno altrove, neppure in altri paesi africani.

Il primo diario di viaggio si chiude con una speranza, quella che l’Eritrea possa dare delle opportunità ai giovani: «moltissimi sono laureati» dice Rossella Belluso «molte anche le ragazze laureate ma non hanno un’occupazione adeguata a ciò che hanno studiato. Così il loro Eldorado diventa l’Europa, l’Italia. Invece vivono in un posto bellissimo dove hanno tanto: biblioteche, scuole, anche in pieno deserto abbiamo trovato una scuola, cose che noi qui neanche ci immaginiamo. Spero che possano avere un aiuto dalle istituzioni, anche da noi italiani, per far sì che escano da questa situazione di stallo che ho percepito».

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© Gianfredi Pietrantoni, Eritrea, l’altopiano

Il secondo diario di viaggio è il racconto di Maria Luisa Ronconi, Università della Calabria: una perlustrazione turistica dell’Eritrea con l’occhio allenato della studiosa di geologia e geografia.

E percorre la tratta Asmara-Massawa che conduce al mare costeggiando la ferrovia «con carrozze che sembrano modellini, non lontane dalla memoria calabrese. Strada e ferrovia offrono panorami di grande bellezza» dice «rilievi aspri fatti di linee movimentate che, in alcuni punti, raggiungono notevoli altezze cui si contrappone la normalità di un’ Africa bassa, formata da una serie di altopiani a quote inferiori ».

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© Gianfredi Pietrantoni, Eritrea, un banco del mercato con semi e spezie

«Viaggiare in Eritrea» continua «è come fare un viaggio nell’Italia del passato.Tracce italiane, nonostante gli anni trascorsi, sono ancora evidenti. Colorata e affascinante l’impronta italiana è simile, soprattutto negli edifici di Asmara, a quella di certi paesini calabresi. Il centro di Asmara ha conservato il volto di fine Ottocento voluto dai progettisti italiani, con pochi esempi di rilevanza ma con sperimentazioni quasi impossibili in Italia, come le ali aperte, futuriste, della Fiat Tagliero.

L’ apprendistato italiano, inoltre, ha formato un popolo che ha fatto del riciclo un’arte, oltre che una necessità» come si può vedere visitando il Caravanserraglio nella zona di Medeber, dove fortissimo è l’odore del berberè, «anche questo molto familiare ai calabresi».

E poi Keren con i suoi portici e il variopinto mercato nel letto, in secca, del fiume. Infine Massawa, città dal caldo soffocante, raggiunta dopo aver passato il ponte di Dogali,«costruito a tutti i costi» cioè: custa lon ca custa, com’è scritto in piemontese.

Per le strade di Massawa «la sera c’è poca luce, i locali sono spartani», evidenti i segni, spiega Ronconi, di quello che la città ha vissuto, «ristrutturata sarebbe un’eccezionale destinazione turistica» perché «Massawa» dice «è l’esempio di ciò che fu e il triste presente di un Paese in cui si nasconde l’essenza di un popolo fiero. Nonostante gli edifici fatiscenti non c’è degrado nel quotidiano, la città è pulita, ordinata. Non si mendica, si gioca a domino, si beve tè, si vive all’aperto, nelle piazze, sotto i porticati moreschi, si dorme davanti a casa» sui tipici letti di ferro, gli angareb

Quello in Eritrea è «un viaggio nella memoria che fa affiorare un passato ritrovato nei simboli di vecchi splendori, nei decori che non brillano più». Un viaggio che porta a conoscere «la ferrovia che, collegando altopiano a bassopiano, rappresenta il simbolo di un Paese unito, di un popolo che ha subito, per la propria indipendenza, una guerra impari».

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© Gianfredi Pietrantoni, la ferrovia eritrea, una stazione sull’altopiano

Conclude Maria Luisa Ronconi che «la ferrovia voleva significare apertura e progresso, quindi sviluppo e circolazione di persone, merci, idee. Da poco la ferrovia ha compiuto cent’anni ma a ricordarlo sono stati soltanto gli eritrei. Prendiamolo come una manifestazione di stima, di riconoscenza all’Italia, se pensiamo di meritarla».

E ancora un racconto questa volta al “maschile”, quello di Alessandro Ricci, Università di Roma Tor Vergata che ha visitato, per la prima volta, l’Eritrea e ne parla nel suo diario, cominciando dai compagni di viaggio: «siamo colleghi» dice «di diverse università italiane e, scopo del viaggio, è studiare una realtà politica e territoriale di estremo interesse, con una storia fatta di forti legami con l’Italia, in cui le città e i paesaggi sono stati molto caratterizzati dalla presenza degli italiani nel corso del tempo e dove pure il vincolo con il nostro paese è considerato ancora rilevante nella vita della popolazione».

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© Gianfredi Pietrantoni, Eritrea, un banco del mercato e il sorriso per la fotografiaDal punto di vista occidentale e leggendo gli indici (Human Development Index), dice Ricci, l’Eritrea è tra i dieci paesi più poveri al mondo, privo di alternanza politica dal 1993, anno dell’indipendenza e con una «farraginosa macchina burocratica» che tiene d’occhio gli spostamenti degli stranieri. Sembrerebbe un disastro. «Però» prosegue «per dirla tutta, le città sono estremamente tranquille e il tenore di vita non pare eccessivamente disagiato, soprattutto ad Asmara. Oltretutto, da viaggiatori, non si sono mai corsi rischi: la sicurezza è pressoché ovunque assicurata e lo stile di vita eritreo ci è parso assai socievole e tranquillo».

Poi racconta: «durante la nostra permanenza ad Asmara, uomini del governo ci spiegano le tappe fondamentali della lotta per l’indipendenza, che ha visto porzioni importanti della popolazione partecipare attivamente non solo in patria ma anche all’estero, dove l’attività di pressione fu piuttosto importante: tra i luoghi simbolo della resistenza c’è stata senza dubbio Bologna».

La gente sia a Massawa che ad Asmara si dimostra «aperta, ospitale, elegante e legata a uno stile di vita che sembra quello che caratterizzò la nostra Italia, almeno mezzo secolo fa».

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© Gianfredi Pietrantoni, Massawa, tavolini all’aperto davanti ai bar, dove si gioca a domino e si beve tè

Anche nel suo diario si annota che gli eritrei sono dignitosi, una dignità insegnata ai bambini, cui si consente di chiedere una caramella, una penna, non di elemosinare spiccioli. Una “dignità” che sorprende molto l’Occidente, forse abituato a un’Africa che chiede.

«Asmara» continua il diario è «una città quasi interamente edificata dagli italiani. Lì nel “blando” colonialismo i nostri ingegneri costruirono le infrastrutture viarie, idrauliche, i palazzi governativi e le strutture abitative, quelle legate allo svago e al divertimento, che permangono tuttora nella capitale sebbene l’assenza di manutenzione stia contribuendo a un declino oggi evidente».

Fin qui i diari.

Su Asmara, capitale dell’Eritrea, però vorrei proporre una metafora: è come un bel centrino fatto all’uncinetto, ottimo cotone, pregiata manifattura e attenti lavaggi l’hanno mantenuto fresco nel corso del tempo, aggiungendo pregio, senza togliere gli anni. E poi una considerazione storica sul colonialismo che non può salvarsi, in corner: “blando” perché ha costruito strade e insegnato ai giovani a fare i panettieri, duro se li guardava lavorare nei campi.

Oggi la gente in Eritrea ha motivi per lamentarsi; spesso la corrente non basta, l’acqua in alcune parti del paese si prende ancora nei pozzi, non dal rubinetto, se si ha un guaio di salute importante, bisogna farsi curare all’estero. Però non si è più storpiati dalla poliomielite o uccisi dal morbillo e dalla malaria e la fine del colonialismo, compreso quello italiano, ha voluto dire non dormire più nell’ala di servizio delle case, non viaggiare in terza classe o in posti separati sugli autobus e poter andare a scuola, anche al college.

Vorrei terminare i diari con la voce fuoricampo di Gemma Vecchio, presidente di Casa Africa che racconta, con parole precise e dure il viaggio verso l’Italia di troppi giovani eritrei, un diario terribile.

«Gli eritrei» dice la signora «sono gente capace. A loro servono gli aiuti, ma innanzi tutto, serve la pace. L’Eritrea si sta svuotando dei suoi giovani che muoiono nel deserto, nel Mar Mediterraneo e in Italia, dove quando arrivano sono abbandonati, sono soli. Con i soldi che spendono per questi viaggi si potevano costruire in patria fabbriche e ospedali. In Italia non trovano rispetto per i loro diritti, né ospitalità.

Io come presidente di Casa Africa onlus, organizzo varie cose. Faccio in modo che questi ragazzi, che avevano pensato di trovare una vita migliore, non siano costretti a digiunare e a dormire per strada. L’Eritrea è diventata una trincea perché l’Etiopia ha sconfinato, però in Italia nessuno ne parla. Convegni e giornali parlano di dittatura, vogliono per noi una democrazia, magari dinastica come capita in molti paesi africani. Sono necessarie giustizia e chiarezza. Io parlo così perché vivo con chi soffre e vedo giovani che perdono energie e anche la vita per lasciare il proprio paese. È terribile.

La loro situazione però non interessa a nessuno perché sono diventati un affare per tutti. Ci sono associazioni che hanno finanziamenti per organizzare corsi per “manutentori di caldaia” a ragazzi che non sanno una parola d’italiano. Le risorse arrivano alle associazioni, ai giovani non arriva niente. Li invogliano a frequentare questi corsi, così danno loro gli “spiccioli”. Questo accade in un paese civile come l’Italia, dove vorrei che la gente desse una mano all’Eritrea, per la pace».

© Marilena Dolce

@EritreaLive

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da circa dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

2 risposte a “Eritrea, diario di viaggio scritto a più mani”

  1. Seble Ephrem ha detto:

    I don’t believe the Latin words on the Dogali bridge “custa lon con ca custa” translate as “costruita a tutti costi” in Italian. Those Latin words refer to the war when the losses were so great and the general tried to keep his soldiers’ spirits high by aiming victory “whatever the cost” or “let it cost whatever it costs”.

  2. Guido Vecchi ha detto:

    Ho letto 4 dei diari che ho trovato molto interessanti. Però devo rilevare un’errore quando si parla del ponte sul fiume barca intitolato ” Custa Lo ca Custa”- Viene indicato nel diario che questa frase era inerente alla costruzione del ponte. Cosa erratissima, la frase fu pronunciata dal Generale Benabrea a seguito dell’eccidio di Dogali . Non per niente il ponte si trova nei pressi della collina dove tutt’ora c’è il monumento in ricordo. Un volta c’erano ancora le tombe dei caduti, adesso andate dipserse a seguito della guerra Etiopico – Eritrea.
    Un peccato perchè una foto ricordo del monumento rimasto non sarebbe stata male.
    Comunque complimenti per il resto. Guido Vecchi

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