Asmara Street, la libertà della moda
Asmara, Eritrea, gennaio 2013, clima primaverile, come sempre.
Panoramica della città, con (inevitabile) occhio occidentale per fotografare la strada, la gente, la moda e capire meglio alcuni aspetti di un paese dai molti volti.
La moda di Asmara è giovane.
Georg Simmel, filosofo tedesco nato a Berlino a fine Ottocento, scrive nel saggio dedicato alla moda che essa soddisfa prima di tutto il desiderio d’imitazione, poi quello di differenziazione.
Il suo territorio è la main street, la strada principale, quella più elegante.
Non a caso la provincia italiana percorre ancora “il corso” la domenica, dopo messa, con il cappotto “bello” e le scarpe lucide. Così accade ad Asmara, si passeggia in Harnet Avenue per guardare, per guardarsi.
La moda è effimera, quello che ieri era trendy oggi è vecchio, anche se un vezzo della moda è cercare di apparire eterna.
Chi segue la moda? Asmara dimostra che in Africa come a Milano, città della moda, la sua fugacità è amata soprattutto dai giovani, anima e corpo della moda stessa.
Sono loro che desiderano appartenere al gruppo, omologarsi, prima di scegliere e distinguersi.
La moda occidentale permette entrambi gli estremi, appartenere al gruppo e chiuderne l’accesso ai “diversi”. Perché la moda ha un’altra caratteristica interessante, è sempre “di classe” e, proprio attraverso la moda, la classe più elevata cerca di differenziarsi da quella inferiore che la insegue, abbandonandola appena ne perde l’esclusiva.
La funzione simbolica della moda è evidente nella sua assoluta mancanza di praticità. In genere i nostri abiti dovrebbero essere in sintonia con le necessità della vita ma i diktat di gonne lunghe o corte, tacchi alti o ballerine, non rispettano nessuna logica. Allora con tacco dodici e identico aplomb si cammina nella neve o si traballa sulla morbida terra rossa dell’altopiano eritreo.
L’occasionalità della moda, il suo imporre l’inutile, è parte del carattere seriale che regge il moderno. Un capo per essere di moda deve diventare prodotto industriale, abbandonando l’unicità e l’imperfezione manuale.
Anche essere demodè è solo apparentemente un rifugio, perché creare uno stile eterno è un altro eccesso della moda.
Esistono, però, gruppi che scelgono, più o meno consapevolmente, questa seconda via, rifiutando di abbandonare la tradizione dell’abito sempre uguale, simbolo di stabilità e sicurezza.
La tenace resistenza verso la moda è l’abbigliamento con kefia e futa degli uomini di Massawa, oppure il look dei dandy asmarini, ormai per età difficili da incontrare, che mixano con sapienza oriente e occidente. Eleganti sono le bellissime donne afar avvolte in lunghi veli colorati, fermi nel tempo, ben diversi dalla tradizione bianca del cotone garzato e leggero delle nezelah, indossate ancora oggi sull’altopiano.
Allora, chi vince, tradizione o jeans? Nezelah o jeggings?
Non conosco la risposta, però forse la moda di Asmara con la sfilata di abiti tradizionali e occidentali, crea un sincero affresco, quasi una cartolina moderna di un Paese che non chiede veli ma li rispetta, che non vieta jeans e gonne corte, non impone barbe lunghe, né tagli d’ordinanza.
Un paese dove la libertà esiste testimoniata persino dalla leggerezza di una moda che, come la libertà, per funzionare può anche non essere d’importazione occidentale.
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