8 Marzo, festa delle donne, in Eritrea è festa nazionale
8 Marzo, festa delle donne. In Eritrea è festa nazionale.
L’8 marzo, festa delle donne, in Eritrea è festa nazionale. Un tributo alla lotta di tutte le donne che, per trent’anni, (1961-1991), hanno combattuto sia in patria, sia all’estero fianco fianco con gli uomini per conquistare l’indipendenza.
Quando penso alle donne eritree, alla loro forza, al loro impegno per avere una patria, mi vengono in mente le parole della canzone italiana, un inno alle donne: “sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli in lega ci mettiamo”.
Una cantata anonima contro l’oppressione, in questo caso delle mondine. Ma soprattutto la scelta di unirsi per avere forza.
Una forza simile a quella che ha fatto lottare per trent’anni le donne eritree, contro l’ingiustizia dell’occupazione, per un paese libero.
Prima dell’indipendenza, nel 1979, nasce l’Unione Nazionale Donne Eritree, NUEW.
Conquistata la libertà le donne chiedono innanzi tutto la parità e l’abolizione di quelle pratiche tradizionali vessatorie, come l’infibulazione. Nel 2007 il governo eritreo, infatti, la mette al bando, stabilendo sanzioni e pene fino all’arresto per chi la pratica.
Non solo. Le stesse donne compiono un lavoro capillare, in parte ancora in corso, per spiegare la pericolosità di tali consuetudini. Una lotta culturale, oltre che politica e sociale, condotta dalle donne per il bene delle altre donne.
Circoncisione femminile e infibulazione sono state considerate dal movimento delle donne una violazione dei diritti umani. Per sradicarne l’abitudine, però, è stato necessario, oltre a spiegarne i motivi, offrire alle donne che le praticavano lavori alternativi, perché non facessero più del male, pur senza saperlo.
Il movimento femminile eritreo si sviluppa in seno al Fronte Popolare Eritreo di Liberazione, EPLF, perché le donne combattenti, tegadeltì, conducono una duplice lotta, contro l’invasione etiopica e contro l’oppressione delle donne.
Uguaglianza significa anche abolire i matrimoni combinati. Già prima dell’indipendenza, nel 1977, il Fronte stabilisce che nelle zone liberate le donne non debbano valere solo per la dote, che il matrimonio debba essere una libera scelta, con uguali diritti e che entrambi i coniugi debbano essere monogami.
In questo modo il Fronte ritrova un atteggiamento antico.
Il sentimento cavalleresco grazie al quale alle donne in Eritrea si chiede il parere e se ne ascoltano i consigli. Riconoscendone ruolo e diritti. Innanzi tutto quello di poter sciogliere il matrimonio, perché nessuna donna deve esservi costretta. Così scriveva nel 1905, riferendosi alle popolazioni tigrine, Ruffillo Perini in Di qua dal Mareb.
Un altro importante passo per l’uguaglianza tra uomo e donna è la proprietà della terra. Un tempo, prima dell’indipendenza, la terra era ereditata solo dai maschi. Nel 1994 la riforma agraria mette fine a questa discriminazione di genere.
Riconoscendo perciò il ruolo fondamentale svolto dalle donne eritree sia nel settore agricolo, sia in seno alla famiglia. Sono le donne, infatti, che macinano i cereali, confezionano gli abiti, trasportano acqua e legna, compiendo tragitti lunghi e faticosi.
Dice a questo proposito Tekha Tesfamicael, presidente delle Unione delle Donne Eritree (NUEW), che “ci sono villaggi dove vivono famiglie molto povere, con molti figli, dove bisogna andare tutti i giorni al pozzo, che può essere distante, per prendere l’acqua.
E questo è un compito femminile.
Perciò, per evitare che le ragazze siano costrette a perdere molto tempo per questa mansione, si dà alle famiglie un asino e un ghirban, una grossa borraccia. In questo modo anche un altro familiare potrà andare al pozzo. E le ragazze avranno più tempo per dedicarsi allo studio”.
Se la liberazione delle donne arriva con l’indipendenza, le basi erano state gettate precedentemente dall’EPLF.
Trent’anni di lotta e di vita clandestina comune tra uomini e donne cancellano pregiudizi e molte ingiustizie di genere.
In quegli anni è smantellata, almeno in parte, la vecchia società patriarcale che lasciava meno spazio alle donne, relegandole, soprattutto nelle zone rurali, al ruolo di mogli e madri.
Il rapporto egualitario tra i combattenti non può rimanere limitato all’esperienza militare. Una lotta combattuta dal 35 per cento di donne su 95 mila soldati, implica parità una volta conquistata l’indipendenza.
Le donne che si uniscono al Fronte lo fanno per motivi diversi.
Per evitare di essere uccise o stuprate dei soldati etiopici, perché hanno perso la famiglia oppure la casa, per vendicare le ingiustizie subite. Tuttavia l’adesione al Fronte, in patria e all’estero, per loro vuol dire, prima di tutto, abbracciare la causa nazionalista e abolire gli stereotipi tra uomo e donna.
Oltre a combattere, le donne del Fronte studiano. Un’altra lotta, contro l’analfabetismo per l’abbandono scolastico. Nelle zone controllate dal Fronte si aprono scuole dove si insegnano molte materie ma, soprattutto, si propone un nuovo modello sociale.
Nel 1994 l’emancipazione delle donne è prevista dal manifesto del PFDJ. Si programmano interventi per promuovere l’educazione, le abilità femminili, la protezione dei diritti civili e l’uguaglianza.
Qualche anno dopo, nel 1998 una nuova guerra tra Eritrea ed Etiopia riporterà il paese allo stato d’emergenza, interrompendo progressi e sviluppo.
L’emergenza durerà quasi vent’anni. Una situazione cui ha messo fine l’accordo di pace firmato ad Asmara lo scorso luglio.
Nel frattempo altre donne hanno avuto bisogno di aiuto. Dopo l’ultimo conflitto molte, infatti, si sono ritrovate sole, diventando l’unica fonte di sostentamento per sé stesse e per i propri figli.
Così, con il sostegno di programmi governativi, si formano cooperative, facendo del lavoro una nuova forza.
A Medeber, quartiere di Asmara un po’ magico, vicino al vecchio Caravanserraglio, ci sono diverse cooperative di donne che producono abiti tradizionali. Qui l’aria è rossa, arrivano folate piccanti di berberè, la preziosa miscela che si produce nei tanti laboratori. Come rossa è la terra davanti alle officine che riciclano il vecchio, facendolo tornare come nuovo.
In questa stessa zona lavorano le giovani donne della cooperativa tessile Sinit, che significa armonia.
Usano telai rimodernati per dar forma al cotone che, con il lavoro delle loro mani, diventa zuria e nezelah. Tessuti bianchi con bellissimi bordi colorati. Le finiture sono fatte con macchine da cucire a volte cinesi ma spesso italiane, vecchie Necchi ancora valide.
Ad acquistare abiti e nezelah made in Eritrea prodotte da queste cooperative, non sono solo i negozi del quartiere, ma anche le comunità di donne eritree all’estero. Una bella forma di solidarietà.
Le donne di Sinit tengono accanto ai telai le cullette con i bambini più piccoli. I grandi invece giocano in cortile. Le condizioni di lavoro non sono ottimali, ma nessuna si lamenta e orgoglio e solidarietà sono percepibili, come il pulviscolo del cotone che svolazza nell’aria.
Oggi nella società eritrea le donne hanno incarichi pubblici in tutti gli ambiti. Per le più giovani studiare significa poterlo fare gratuitamente, nel proprio paese, fino all’Università.
Una condizione impensabile per la generazione delle mamme e delle nonne. Quelle stesse donne che hanno combattuto e si sono sacrificate per avere un paese indipendente e in pace. Per dare alle figlie un futuro sempre più rosa.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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