Viaggio in Eritrea, Touch the Future (parte seconda)
Keren, Massawa, Adulis, Isole Dahlak
Per viaggiare in Eritrea e uscire dalla capitale è necessario consegnare (per praticità consiglio in agenzia) un itinerario di viaggio. L’Eritrea non è un paese in stato d’assedio, tuttavia l’allerta per l’irrisolto problema con la frontiera etiope rende indispensabili controlli e check point, anche se in numero minore rispetto ad alcuni anni fa.
Dunque il viaggio continua verso Keren, 90 chilometri da Asmara, bassopiano, terra bilena, (2% della popolazione), una delle otto etnie, terza città eritrea per importanza.
Qui si parlano molte lingue, bileno, tigrino, tigrè, inglese, arabo e, qualche volta, un po’ d’italiano. La popolazione è in parte cristiana, in parte musulmana, divisione simbolicamente rappresentata dalla presenza di Chiesa e Moschea.
Il mercato del lunedì è il suo pezzo forte. Un fiume technicolor di mille persone si riversa sul greto secco dove, anziché l’acqua, scorrono mercanzie locali, frutta, verdura, tessuti, magliette “cinesi” e, naturalmente, cammelli, comprati e venduti, in uno spazio improvvisamente piccolo.
«L’India è la storia e l’anima di questo mercato, dell’organza del sari indossato dalle donne», come spiega Erminia Dell’Oro che in Asmara Addio scrive: «si villeggiava a Cheren, la bianca cittadina orientale, l’Albergo Sicilia era gestito da un baffuto e cordiale siciliano, era un angolo di mondo con il suo giardino ricco di colori».
In centro, sotto il porticato, costruito dagli italiani, molte botteghe, laboratori di orafi e sarti. Dove oggi c’è la stazione delle corriere un tempo arrivava la ferrovia. Esiste ancora la vecchia pensilina liberty e il bar decorato con trompe l’oil diventati d’epoca.
Poco distante, un po’ in collina, il santuario della Madonna nera del baobab.
Il padre cistercense dice che, un tempo, qui vivevano, coltivando e pregando, le Figlie della Carità devote a Maria e che la Madonna nera era stata donata dal vescovo di Parigi per il santuario, poi sistemata nel baobab per aver salvato due soldati italiani che vi si erano rifugiati, nel 1941, durante l’ultimo conflitto. Ancora oggi è meta di pellegrinaggi; la credenza vuole che si trovi marito e fertilità preparando il tradizionale caffè all’ombra del baobab e offrendolo a un viandante sconosciuto.
Lasciandosi alle spalle il verde di jacarande, flamboyant, eucalipti, buganvillee, acacie, per raggiungere la costa si percorre la strada panoramica “tre stagioni in due ore” come scrivono gli opuscoli turistici. Strada e ferrovia, due superstar, costruite dagli italiani per far viaggiare merci e persone, collegando l’altopiano con il mare, sfidando pendenze, massicci, tornanti. Opere pensate, come la teleferica Massaua-Asmara per accelerare lo sviluppo del paese, distribuire le merci arrivate via nave.
Durante gli anni di lotta i binari della ferrovia però diventano trincee; merci e persone non viaggiano più lasciando spazio alle carovane di cammelli.
Conquistata l’indipendenza toccherà ai vecchi ferrovieri cercare di rianimarla, senza esiti positivi per il limite oggettivo di una struttura antica con gallerie troppo strette per i moderni container. Tuttora non esiste linea ferroviaria, però se il turista vuol conoscere o riconoscere il vecchio stile, delle littorine, antenate di Italo e Frecce, può prenotare una corsa e, tra sbuffi di fumo e carico di carbone, ascoltare una storia che parla di tempi lontani.
Lo scorso febbraio il ministro Riccardi ha consegnato materiale ferroviario italiano ormai inutile per l’alta velocità, all’Eritrea e alla sua ferrovia, preludio di rinascita, forse.
Man mano che si scende dal bassopiano verso la costa, il caldo del deserto arroventa l’aria, unica concessione l’assenza di umidità. Superato il ponte di Dogali famoso per la scritta in piemontese, custa lon ca custa, cioè va costruito “costi quel che costi” si arriva a Massawa, città dai tra nomi, con la u per gli italiani, Mitz’wa per gli arabi e Mitsua, più dolce, in tigrino.
Massawa è in una posizione strategica, crocevia tra Mediterraneo, Africa, India. A prevalere è l’anima araba per l’influenza di tradizioni e culture portate da commercianti turchi, greci, indiani, egiziani, yemeniti. Gli italiani la occupano nel 1885 e ne fanno la capitale prima di accorgersi che la fama di luogo più caldo della terra non era immeritata.
Entrando in città lo smarrimento iniziale per la distruzione recente, quella provocata dai bombardamenti etiopi del 1990, non impedisce il colpo di fulmine, l’ammirazione per una città ottomana, ricca di riferimenti europei, un’affascinante città sul mare, una “Venezia ferita”.
Non c’è degrado, non si mendica, si gioca a domino, si beve tè. Si vive all’aperto, nelle piazze, sotto i porticati moreschi, dormendo davanti a casa sul tradizionale angareb, oppure sulle terrazze. Le biciclette sono arrivate anche qui e i più giovani le usano, sfidando il caldo anziché le salite
Di giorno i simboli del vecchio splendore, i decori della Banca d’Italia, il serraglio costruito dal Pascià, dove oro e azzurro non brillano più, sono appannati, verso sera, però i neon, colorando di luce strade e palazzi portano, con la brezza, una ventata di speranza, di ottimismo per una ricostruzione che verrà, in alcuni angoli già iniziata.
Prima di abbandonare la costa, per l’arcipelago delle Dahlak, isole che si possono visitare chiedendo un permesso all’ufficio del turismo o tramite agenzia, andare ad Adulis, un tempo il maggior porto, forse la terra di Punt, uno dei siti archeologici d’Eritrea insieme a Metara, Senafe, Koaito, Buya, è aprirsi un varco verso il nostro passato.
Dice l’archeologo Alfredo Castiglioni, rientrato in Italia dopo l’ultima missione: «all’inizio si volevano riportare alla luce le antiche scoperte, ormai sommerse da limo e sabbia. Ora si sta trovando molto di più, una “Pompei d’Africa”, trentaquattro ettari di città nascosta. I resti di una chiesa paleocristiana e, sotto, qualcosa di molto più antico, forse un’ara. L’ultimo giorno di scavi abbiamo trovato una parete ricoperta di frammenti di lamine d’oro». Poi aggiunge in anteprima, «vista l’importanza del sito, il prossimo ottobre 2013, presenteremo all’Unesco la candidatura di Adulis, perché diventi patrimonio dell’umanità ».
Speriamo che la “signora di Buya” scoperta nel 1995 da Lorenzo Rock dell’Università Firenze, custodita ora al Museo Nazionale di Asmara, sotto l’ala del direttore Yosief Lebesekal, non si offenda. Avvantaggiato da una posizione strategica, vicino al mare e alla città, facilmente raggiungibile, Adulis diventerà anche parco archeologico, per un turismo familiare, non solo di addetti ai lavori.
La costa di Massawa, una lunga striscia sabbiosa, deserto, fenicotteri, accampamenti, carovane di cammelli, pick up, progetti di resort, attende paziente il suo turno, alla voce turismo.
«Le Dahlak sono un arcipelago dall’austera reputazione» dice Vincenzo Meleca, viaggiatore, esperto conoscitore di queste isole, «il paradiso di chi ama la natura incontaminata. Organizzare un viaggio per visitarle vuol dire vedere fondali meravigliosi ma anche essere pronti a piccoli sacrifici, dormire in tenda o sul ponte dei sambuchi, le imbarcazioni più tipiche per raggiungerle».
Molte di loro non hanno un nome. Quello di alcune, Cundalibù, ha un suono magico. A nord dell’arcipelago ci sono le isole più nascoste, meno conosciute, a sud le più turistiche, come Dessei dove si può dormire e mangiare. In tutte manca l’elettricità, garantita con parsimonia dai generatori e l’acqua corrente. Solo a Dahlak Kebir, la più grande, vicina allo Yemen, tra poco sarà inaugurato un resort “stellato,” per subacquei esigenti.
Bellissima l’isola degli Uccelli, Madote, una striscia di sabbia lunga e stretta che delimita di blu intenso l’azzurro chiarissimo del mare. Un faro abbandonato è il nido di falchi pescatori. Ci sono moltissimi uccelli perché di loro gli uomini non si occupano, non li cacciano.
Dessei è l’unica isola vulcanica, non un affioramento corallino. C’è un piccolo villaggio di pescatori afar, case in legno che arretrano quando sale la marea, qualche volta un verde inconsueto, se ha piovuto. La necropoli testimonia il passato, un tempo in cui c’erano molti abitanti sull’isola, come spiega il suo omonimo Ali Dessei, mentre, con pazienza, si lascia fotografare.
Per i (pochi) che non prenderanno maschera e boccaglio per scoprire fondali dalla bellezza segreta, le Isole Dahlak riservano altre meraviglie: bagliori di stelle infinite, costellazioni altisonanti, come la Croce del Sud, plancton che, nelle notti senza luna, si lascia cogliere solo dagli occhi e delfini che giocano, esibendosi quasi apposta, senza far pagare nessun biglietto.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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