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Mulini e pasta, una storia coloniale in Eritrea e nell’AOI

Marilena Dolce
17/01/21
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In Eritrea e poi nell’Africa Orientale Italiana,  mulini e pasta sono parte della storia coloniale.

 

 

Una recente polemica sugli impliciti “retaggi coloniali” della pasta e sull’opportunità o meno di ricordarne i nomi littori, suggerisce un approfondimento.

Nel 1936 Mussolini annuncia dal balcone di piazza Venezia la conquista dell’Etiopia. Così per volere del duce nasce l’Africa Orientale Italiana, AOI.  Oltre a Eritrea, Somalia e Libia anche l’Etiopia, o meglio l’Abissinia, come veniva chiamata, entra perciò nell’impero.

Sono gli anni delle molte imprese coloniali. Si costruiscono ponti, strade e ferrovie. Si avviano lavori. Ci sono militari e civili. I coloni arrivano dall’Italia per trovare “un posto al sole” dove vivere e lavorare. Accanto a questa laboriosità non si possono però tacere le stragi fasciste. In Etiopia, nel 1937, il viceré Rodolfo Graziani ordina una rappresaglia per vendicarsi dell’attentato subito da rivoltosi etiopici ad Addis Abeba. Non si cercano neppure i responsabili, si ordina invece una carneficina che arriva come una sciabolata contro civili inermi, che non avevano nessuna responsabilità.

Se l’ultima colonia è l’Etiopia, la prima era stata, nel 1890, l’Eritrea. Poi Somalia e Libia dove Giovanni Giolitti inizia una nuova guerra, per “liberare” dall’impero ottomano la Tripolitania e la Cirenaica. Ma i militari italiani si troveranno davanti non solo l’esercito ma anche la resistenza delle popolazioni locali. Il 23 ottobre 1911 a Sciara Sciatt, un’oasi nei pressi di Tripoli, i libici sconfiggono gli italiani. La morte di oltre cinquecento soldati scatena una rappresaglia costata ai libici civili e militari tra i mille e i quattromila morti. Inoltre Giolitti decide di iniziare le deportazioni verso l’Italia.

Questi sono solo alcuni esempi per ricordare ancora una volta che non esiste un colonialismo buono diversamente dagli altri.

Inaspettatamente, però il colonialismo balza alle cronache in questo inizio d’anno per la scelta del pastificio La Molisana di ripescare dimenticati nomi littori dati in quegli anni ad alcuni formati di pasta.

Così scoppia il caso. Mentre sui social si urla l’anticolonialismo, La Molisana, sul proprio sito, correttamente, si scusa per l’incidente non voluto.

Va detto, comunque, che l’uso attuale di nomi per la pasta che rimandano al colonialismo, non è una novità.

Basta guardare sui siti, per esempio della Garofalo o della Gran di Pasta per scoprire l’esistenza degli abissini o dei bengasini.

Nella vicenda di pasta e colonialismo non sono mancate neppure le toppe più grosse del buco. Si è scritto che era lecito che La Molisana chiamasse la pasta con nomi littori. Che tornassero sugli scaffali dei supermercati le abissine, le tripoline, le bengasine, oppure gli assabesi.

Nella disputa semi storica Francesco Storace, vice direttore de Il Tempo, scrive sulla sua pagina facebook che “alla sinistra non  bisogna far sapere che c’è la pasta delle camicie nere” alludendo alle abissine della Molisana. E poi si complimenta con  Giovancarmine Mancini, vice presidente del consiglio comunale di Isernia, politico di destra, che scrive, in appoggio ai compaesani del pastificio che, “le abissine al deciso sapore littorio sono indigeste a tutte le zecche”, ovviamente di sinistra.

Va detto che molti sono i nostalgici che in rete  promettono alla Molisana acquisti a vita.

Tuttavia leggendo commenti social, pro e contro, è impossibile non chiedersi quanti storici del web, avrebbero saputo collocare geograficamente, così su due piedi e prima della polemica, la baia di Assab. Oppure rispondere a una domanda più specifica sul perché i formati della pasta assabina e abissina siano uguali anche se rimandano a Paesi e storie diverse.

Nel primo caso Assab è il nome della baia dove attraccò la nave di Rubattino, precedentemente all’acquisto dell’area che diventerà il primo nucleo della colonia eritrea. Nel secondo caso invece è il nome dell’Etiopia, translitterato dall’arabo.

Tornando alla pasta però, La Molisana ha aperto, involontariamente, un caso interessante.

La domanda che pongo è se in Eritrea, in Etiopia, in Somalia oppure in Libia si mangiavano piatti di abissini, bengasini, tripolini al ragù o al pomodoro.

Circoscriviamo il campo. In Etiopia l’impero è durato troppo poco per lasciare un’influenza gastronomica completa. Cioè certamente ci saranno state trattorie dove si cucinavano gli spaghetti, ma le abissine?

Somalia e Libia nel post colonialismo e nell’era attuale hanno problemi ben più gravosi che perdere tempo a indagare sulla pasta littoria.

Mentre in Eritrea?

In Eritrea ci sono ancora molte insegne di trattorie un tempo italiane che ne hanno mantenuto il nome. Così come si possono trovare nei menù locali piatti di lasagne al forno, oppure pizza margherita e spaghetti al pomodoro.

Certamente la cucina italiana ha lasciato un segno in Eritrea. Tuttavia, chiedendo a eritrei che a loro volta si sono informati presso gli anziani, nessuno ricorda le conchiglie dal nome littorio, le assabine o le abissine.

Si potrebbe dedurne che la pasta rivisitata e rinominata dal fascismo non abbia mai superato i patri confini. Probabilmente la pasta coloniale è stata una meteora che non ha fatto in tempo  a mettere radici nelle colonie, spazzate via nel 1941.

Quello della pasta coloniale non è il solo esempio di oblio, anche la  variante autarchica del Negroni non ha avuto fortuna. Nasce nel 1919 il cocktail “Asmara Negroni” che però non soppianta il più blasonato parente.

Tornando alla storia della pasta eritrea, con gli italiani arrivano anche mulini e pastifici industriali. Fino al 1975 ad Asmara c’è l’ALFA, una fabbrica che produce “pasta alimentare”, mentre in seguito resiste il pastificio Raffetto che ora produce farina e non più pane.

  Il più antico pastificio eritreo risale al 1905. Lo apre ad Asmara Primizio Gandolfo, un imprenditore che nasce a Bagnoli nel 1895 e muore ad Asmara dov’è seppellito, nel 1939. È lui che installa un mulino a cilindri per macinare il grano e poter fare la pasta.

Prima ancora di fondare i pastifici, infatti, il problema era avere i mulini per ottenere dai cereali e dal grano, la farina.

Sempre un italiano, Luigi Ernesto Beltramo, nel 1899, impianta il primo mulino  meccanico ad Adi Keyh.

Ne scrive Giuseppe Puglisi che racconta la storia della macinazione meccanica e dei panifici in Eritrea. “Il Beltramo”, scrive,  “in quell’anno installava in una delle prime costruzioni in muratura che costituirono il nucleo dell’abitato di Adi Keyh, un molino a palmenti, con buratto e ventilatore azionato da un motore Ruston”.

La vera difficoltà, spiega, era stata trasportare a dorso di mulo tutti i pezzi, soprattutto il pesante motore.

A questo mulino seguono nel 1900 quelli dei fratelli Cinnirella e Calabitta che li istallano ad Asmara per produrre pane e pasta.

Una volta arrivati a Massawa i pezzi del mulino sono caricati sul tratto di ferrovia che arriva sull’altopiano. Infine per giungere ad Asmara i pesantissimi cassoni sono messi su carri trainati da buoi. Questo tragitto finale, “irto di difficoltà e contrattempi” poteva durare anche una settimana.

Sempre ad Asmara, nello stesso periodo, Giuseppe Vaudetto impiantava il quarto mulino modernissimo, azionato da un motore a scoppio.

Negli anni Venti si inaugurano altri pastifici, quello di Graventi nel 1918, e poi quelli delle famiglie Pari e Nizzola.

Oggi in Eritrea si macina ancora il grano, in lingua tigrina, srnai. E per farlo si usano piccoli mulini.

Lo scopo è ottenere farina integrale per l’injera, la focaccia tipica che accompagna carni e verdure.

La farina non si compra confezionata in negozio. Si va al mercato dove a buon prezzo si acquista il grano. Quindi si lava e asciuga all’aria. Un’operazione quasi sempre fatta nel cortile di casa.

Poi si porta  tutto a macinare. Diversamente rispetto all’Italia, la farina integrale in Eritrea costa meno di quella bianca.

Ad Asmara ci sono molti capannoni dove si macinano i cereali, un’operazione che dura circa un quarto d’ora e per 25 chili costa 35 Nakfa, pari a poco meno di 2 euro.

Marilena Dolce

Marilena Dolce, giornalista. Da più di dieci anni viaggio verso il Corno d'Africa e da altrettanti scrivo ciò che vedo. Soprattutto per Eritrea ed Etiopia ma non solo. Dal 2012 scrivo per EritreaLive, notizie e racconti in diretta dall'Eritrea. Perchè per capire il mondo bisogna uscire dal proprio quartiere, anche solo leggendo.

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