Luciano Vassallo, italo-eritreo, stella d’Africa del calcio anni Sessanta
Nuovo Teatro Ariberto, un momento dello spettacolo sulla vita di Luciano Vassallo, interpretata da Giambattista Anastasio
Luciano Vassallo, nato nel 1935 ad Asmara, è un calciatore italo eritreo. Ma soprattutto è la “stella d’Africa”.
Nel 2014 il giornalista sportivo Antonio Felici lo intervista per scriverne la storia nel bel libro “Stella d’Africa”, appunto. Pagine dense di vita e di accadimenti, non solo privati.
Questo fine settimana, il 15 e il 16 e il prossimo 22 e 23 febbraio va in scena a Milano, al Nuovo Teatro Ariberto, lo spettacolo tratto dal libro, “Stella d’Africa”, l’incredibile storia di Luciano Vassallo (Edizioni Coralli).
Luciano Vassallo, Stella d’Africa, vincitore della Coppa d’Africa 1962
Interprete Giambattista Anastasio, che ne ha scritto anche la sceneggiatura, regia di Marco Filatori.
Incontro protagonista e regista durante una prova generale.
Come mai mettete in scena Stella d’Africa, la storia di un campione, una storia di calcio ma non solo?
“Abbiamo messo in scena questa storia” dice Giambattista Anastasio “perché è una storia unica, esemplare che contiene due messaggi forti. Entrambi di estrema attualità. Innanzi tutto fa capire com’è stupido il razzismo. Quella di Luciano Vassallo è la storia di una persona discriminata per il colore della pelle. In questo caso perché è per metà italiano. La speranza è che lo spettatore capisca che il razzismo può colpire proprio tutti. Siamo tutti diversi rispetto a qualcun altro”. “L’altro messaggio, altrettanto importante”, aggiunge “è che non sempre i calciatori hanno avuto vita facile come succede ora”.
Giambattista spiega di essersi appassionato alla storia di Luciano Vassallo proprio perché è, oltre che attore e giornalista, un appassionato di sport e di calcio. Non certo però delle sue peggiori derive.
“Come quelle” spiega, “che vediamo tutte le domeniche allo stadio, quando le tifoserie insultano i calciatori neri delle squadre avversarie, facendo fioccare parolacce e banane”.
“L’attualità della storia che porto in scena” continua, “è questa, che Luciano, nonostante fosse un calciatore bravo e stimato, era discriminato”.
Una discriminazione che porta con sé fin dalla nascita.
È meticcio. Nel suo caso figlio di una giovane eritrea, Mebrak Abraham e di “un bersagliere di Fiesole”, Vittorio Vassallo.
Di cui si perdono le tracce quando l’Italia di Mussolini invia le truppe a combattere in Etiopia, per la conquista dell’Impero.
Né Mebrak né Luciano hanno tempo di indagare sulla sua sorte. Altri sono i problemi.
“Adesso” dice Giambattista, “una delle nipoti sta cercando il nonno, ma non è un’impresa facile”.
“Vassallo”, continua Giambattista, “è un meticcio che vive con sofferenza la sua condizione. Un bianco che sperimenta la discriminazione, perché il colore della sua pelle è più chiaro rispetto a quella degli altri. È figlio del diavolo, gli dice la madre, con cui avrà un rapporto difficile”.
“Come meticcio” spiega Giambattista, “Luciano sarebbe chiamato con il nome della madre. Un nome femminile anziché un patronimico maschile, una condizione insostenibile in una società tradizionale”. “La sua lotta”, aggiunge “sarà perciò quella di avere, come unica eredità, il cognome del padre. Ci riuscirà anche se non è molto chiaro come”.
La condizione dei meticci non è mai stata facile. Però peggiora quando Benito Mussolini si allinea alle posizioni razziste di Hitler. A questo punto, per i meticci, tira una brutta aria. Il regime fascista, infatti, mette il bastone tra le ruote ai riconoscimenti. Non solo gli uomini bianchi non possono più avere relazioni con le donne eritree, ma i figli nati da tali relazioni non possono essere riconosciuti.
In precedenza invece i figli di tali unioni, se riconosciuti dai padri, diventano italiani.
E la discriminazione continua anche nelle scuole cattoliche di Asmara che accettano i meticci con difficoltà
La scuola in quegli anni non è certo un obbligo per tutti. I meticci, se ci vanno, è quasi sempre per la volontà delle madri che ne capiscono l’importanza.
Nel caso di Luciano poi, l’esperienza in classe non è delle migliori.
“A scuola” dice Giambattista “lo confinano all’ultimo banco. Ancora discriminato, perché bianco solo per metà e per l’altra metà è povero”.
Così a Luciano resta la strada. Il pallone fatto di stracci da tirare con gli amici, prima sulla terra rossa di Asmara. Poi nei campetti.
Sarò un calciatore, sarò un campione, decide Luciano.
La mamma, ancora una volta, non è d’accordo. C’è bisogno di soldi. Lui deve lavorare e il calcio è solo gloria. In quegli anni i calciatori, anche i più bravi sono pagati pochissimo o niente del tutto.
Vivono come tutti gli altri, in case con il tetto di lamiera, nei quartieri periferici.
Luciano si accorge delle differenze tra il suo quartiere e il centro città. La bella via principale, la Cattedrale, cinema, negozi, teatri, ristoranti. Tutto pulito ed elegante, ma non per loro.
Tuttavia non si arrende. Vuole giocare, così trova squadra e lavoro. Gioca, si allena, guadagna, abbastanza per aiutare in casa. E diventa sempre più bravo. Non passa inosservato.
Ad Asmara si allena con Tzhahaie Barheè, nella Gaggiret.
Qui, oltre alla tecnica, capisce che i principi cardine di una squadra sono solidarietà e fratellanza. Parole che diventeranno il suo motto e che userà in seguito per compattare la nazionale d’Etiopia.
A venticinque anni accetta l’ottima offerta dalla squadra etiopica di Dire Dawa, il Cotton Club.
Nel frattempo in Eritrea sono accadute molte cose.
Archiviato il colonialismo italiano e terminata l’amministrazione inglese, il Paese è prima federato all’Etiopia, poi annesso, con il consenso delle Nazioni Unite.
Sono gli anni in cui inizia la lotta per l’indipendenza. Nasce il primo Fronte. I giovani scappano sulle montagne per organizzarsi e combattere per la libertà. Una lotta che durerà trent’anni, per concludersi, nel 1991, con la liberazione del Paese.
Un’eco di ciò arriva anche a Luciano.
“Andrò sulle montagne… per la libertà. Quella libertà che in tutta la vita può anche non arrivare mai”, così si apre lo spettacolo dedicato alla sua storia.
E la sua “montagna” sarà il campo di calcio.
Nella nazionale etiopica del CT Tessema, divisioni e soprusi a scapito degli eritrei non mancano certo. Chi arriva dal San Giorgio, vivaio locale di promesse, guarda con disprezzo e sufficienza i compagni eritrei.Tuttavia, quando nel 1962 si disputa ad Addis Abeba la Coppa d’Africa, la nazionale è composta da nove giocatori eritrei.
Prima della partita però Tessema chiama Vassallo. Ha deciso di togliergli la fascia di capitano.
Non perché non sia bravo, gli spiega. Il problema pare sia proprio quello. Lui è bravo, la squadra forte. Se vincono la Coppa non si può rischiare che a ritirarla dalle mani dell’Imperatore sia un meticcio, per giunta eritreo. O viceversa.
Così gli propongono di cambiare nome. Di sceglierne uno più “africano”. Luciano non molla. Quel nome, anche se gli ha provocato tanti fastidi, è la sua unica eredità…
Durante la finale, il 21 gennaio, lo stadio è completo. Trentamila spettatori, tutti pro Etiopia. In tribuna le autorità e l’imperatore. L’Etiopia vince e Vassallo, con la fascia di capitano al braccio, prende la Coppa d’Africa dalle mani di Heilè Selassiè.
Luciano Vassallo riceve la Coppa d’Africa (1962) allo stadio di Addis Abeba dall’Imperatore Hailè Selassiè
È l’uomo d’oro del calcio d’Etiopia, la “stella d’Africa”, come
scrivono i giornali.
A raccontarlo durante la spettacolo, è la voce storica del tele cronista Bruno Pizzul.
Non passerà molto tempo però che la vita di Luciano dovrà affrontare un’altra prova.
Nel 1974 l’imperatore è deposto da una giunta militare. Nel giro di poco il paese sprofonda nel “terrore rosso”. Un regime violento con a capo Menghistu Heile Mariam, uomo che Luciano conosce e definisce “un completo ignorante, un attaccabrighe”.
Il tempo della relativa agiatezza finisce per tutti, anche per lui che, nel frattempo, si è sposato con una ragazza meticcia da cui ha avuto i primi due figli.
Decide perciò che per loro sia meglio andare in Italia.
Lui resta anche perché è sotto la lente del Derg. Non lo amano ma non possono evitare che sia un beniamino dei tifosi. Se lo lasciassero andare sarebbe un duro colpo.
Ancora una volta però Luciano li dribbla.
Fugge, non in aereo ma in macchina, via Gibuti. Una valigia e molta paura. Ad aiutarlo la sua fama, una bravura che ha passato i confini.
Finalmente arriva in Italia.
Qui nessuno lo conosce. Non è più giovanissimo, ma soprattutto non sono ancora gli anni in cui le squadre di calcio si contendono “gli stranieri”.
È italiano, ma non ha più niente.
Intanto ad Addis Abeba le autorità cancellano il suo nome dai documenti ufficiali. Lui non è mai stato capitano della nazionale etiopica. Non ha mai vinto la Coppa d’Africa. La sua stella deve essere offuscata. “Damnatio memoriae”, dice in scena Giambattista Anastasio. Che lo sapessero o no, i gerarchi del Derg hanno comminato a Vassallo la pena che nell’antica Roma stabiliva che, in casi eccezionali, una persona potesse essere cancellata. Niente di lei doveva più esistere.
Fortunatamente per Luciano non sarà così. Uscito di scena il Derg, negli anni Novanta lui ritorna ad Addis Abeba. Il nuovo governo non gli ridà le proprietà nazionalizzate, però organizza una partita con le vecchie glorie della nazionale. E i compagni di squadra gli ridanno la fascia di capitano.
Come si riesce a portare in scena tutto questo? Chiedo a Giambattista.
“Con i tempi del teatro. Quindi non spiegando tutto. Facendo delle scelte, perché se no sarebbe stato un kolossal da cinque ore…”.
Per me, che ho visto le prove, i novanta minuti di spettacolo sono volati, come una bella partita di calcio, una di quelle giocate dal Capitano.
Devo dire che seppur epoche diverse l’essere meticcio ha colpito anche me. So quanti segni lascia l’ignoranza. La vita di Vassallo lascia emozione anche in queste poche righe che divori e giungendo alla fine hai potuto vedere attraverso le parole immagini vivide come fosse un immersione 3D in una pellicola colore sabbia.