Lampedusa, le radici dell’orrore
Intervista a Zeudi, volontaria a Lampedusa
I volontari accorsi a lampedusa per aiutare i giovani eritrei raccontano il traffico di uomini, un’organizzazione criminale con base in Libia.
Nei giorni scorsi un servizio del tg2 ha mostrato, all’ora di cena, di che genere sia l’accoglienza riservata ai profughi nel Cie (centro di identificazione e espulsione) di Lampedusa.
Il giorno dopo si è twittato, smarriti, con hashtag sequestoèunuomo, riprendendo la dichiarazione del sindaco Giusi Nicolini che ha detto che le immagini del servizio fanno pensare alle pratiche naziste nei campi di sterminio. Giusto. Ma lei dov’era?
Si dirà che il Centro non compete al sindaco, che alla Cooperativa Lampedusa Accoglienza sarà tolto l’incarico, che «chi ha sbagliato, pagherà» che ora ci si affiderà alla Croce Rossa, tuttavia è sconcertante la rapidità con cui si è archiviata la commozione del 3 ottobre per passare, retorica permettendo, a un pragmatico cinismo.
Molte domande rimangono senza risposta. Per quanto tempo si può restare a Lampedusa dopo lo sbarco? E Le salme dei giovani morti in quel mare ritorneranno mai a casa dopo le molte promesse e le cerimonie ufficiali?
Come si vive nel centro di Lampedusa l’abbiamo visto e non possiamo che rammaricarcene ma, tornando al punto di partenza, un centro predisposto per brevi permanenze, per piccoli numeri, può diventare refugium peccatorum senza che nessuno se ne preoccupi più?
Si può parlare di status di rifugiato ferendone la dignità di uomo?
Nelle scorse settimane, durante la presentazione della ricerca The Human Trafficking Cycle, don Mussie Zerai, responsabile dell’organizzazione Habesha da anni a fianco dei rifugiati, ha chiesto all’Italia un aiuto per prevenire e risolvere le cause che spingono i giovani ad abbandonare la propria terra per cercare rifugio in Europa, concludendo che è tempo che si apra un corridoio umanitario.
Forse è meglio, però, che al termine del “corridoio” non ci sia l’Italia del Cei di Lampedusa.
Sono questi gli interrogativi che si porrà la #cartadilampedusa da scrivere dopo il #18D?
Nel frattempo, per capire come siano potute accadere queste cose, ora più che mai, è bene ascoltare i racconti dei molti ragazzi eritrei che da tutta Europa, Italia compresa, si sono recati a Lampedusa, dopo il 3 ottobre, decisi ad aiutare gli amici, i compagni, connazionali disperati per la tragedia che ha sconvolto e distrutto le loro vite.
Naturalmente non tutti i ragazzi accorsi a Lampedusa la pensano politicamente nello stesso modo, non era un gruppo organizzato, filo o anti governativo, solo giovani volontari disposti ad aiutare i coetanei.
Zeudi, nome di fantasia, è una giovane eritrea partita, come molti altri dal Nord Italia diretta a Lampedusa per offrire appoggio e aiuto a chi improvvisamente ha perso tutto.
I numeri dicono che quaranta minori sono stati trasferiti subito a Caltagirone. Nel Centro rimangono centodieci ragazzi eritrei, tutti gli altri sono morti in mare.
Il Cie è affollato. Oltre ai profughi del “3 ottobre” ci sono quelli sbarcati poche ore prima e poi gli altri, arrivati nella notte tra il14 e il15 ottobre.
Così un Centro che potrebbe ospitare 300 persone, ne contiene più di mille, molti eritrei ma anche siriani, somali, nigeriani.
Chiedo a Zeudi: «Come vivono tutti insieme nel campo questi ragazzi?»
Mi spiega: «I ragazzi eritrei, a differenza degli altri, preferiscono uscire dal campo, passeggiare nel centro di Lampedusa. Appena arrivata gli addetti della Cooperativa di Lampedusa mi accompagnano in centro. L’impatto è forte e strano al tempo stesso. I ragazzi eritrei sono lì, seduti sulle panchine, oppure nei caffè, così Via Roma assomiglia a Harnet Avenue, la via principale di Asmara. Vedendoli passeggiare quasi non ci si rende conto di quello che hanno affrontato. Naturalmente questa è la facciata, un modo per reagire al dolore. Le ragazze, invece, non escono dal campo, stanno tra loro».
«I ragazzi eritrei, si legge sui giornali che scappano dalla fame, è vero?»
«I ragazzi eritrei che ho incontrato a Lampedusa non sono scheletrici, emaciati. Direi che fisicamente sono normali, non sono denutriti. Non parlerei di fame, certo in Eritrea l’alimentazione non è varia come la nostra, però non scappano dalla fame.
I loro occhi tradiscono l’ansia, l’angoscia per un futuro incerto, difficile. Sono ragazzi che vorrebbero di più dalla propria vita».
«Allora è l’incertezza del futuro a spingerli prima verso il deserto poi verso il mare, salendo su imbarcazioni a dir poco precarie?».
«In realtà loro non hanno paura del mare ma del deserto. Il Sahara spaventa, non ci sono coordinate, sono da soli. Il mare invece lo affrontano in gruppo».
«Da dove partono questi ragazzi?».
«Non è mai un viaggio con una partenza e una meta finale, è un viaggio a tappe.
Partono dall’Eritrea diretti verso Sudan o Etiopia. Spesso attraversano il confine per arrivare nel campo profughi di Mai Aini. Molti di quelli che entrano in questo campo infatti poi lo lasciano».
«Come mai lasciano un campo delle Nazioni Unite?».
«Gli eritrei si trovano male nel campo di Mai Aini perché si trova nella regione del Tigray. Qui popolazione e forze dell’ordine sono ostili agli eritrei. Anche dopo il 3 ottobre nel campo ci sono stati disordini, perché gli eritrei manifestavano per la morte a Lampedusa di chi avrebbe dovuto rimanere nel campo».
«Dal campo si esce clandestinamente? Il traffico di esseri umani passa anche dai campi profughi etiopi?».
«Sì, all’interno del campo ci sono persone che prendono soldi per aiutare i ragazzi che sono lì a uscir dal Paese. La vita nei campi profughi non è facile, bisogna arrangiarsi per tutto, il cibo è scarso. Il viaggio dall’Eritrea verso l’Europa non è diretto. Spesso la prima sosta è in Sudan a Khartoum o in Sud Sudan, a Juba. Si cerca di trovare un lavoro e risparmiare per il viaggio verso l’Occidente, verso il Nord Europa. Non tutti hanno parenti all’estero o qualcuno che può pagare il viaggio, così i ragazzi cercano di guadagnare».
«Però la meta finale per l’imbarco verso l’Europa rimane le Libia?».
«Sì la Libia oggi rimane la meta principale, l’unica che permette l’imbarco, sarebbe più vicina la Tunisia ma l’attuale situazione politica in Liba permette traffici illeciti che facilitano gli imbarchi».
«E da lì verso Lampedusa. Cosa va storto il 3 ottobre, cosa succede?».
«Come dicevo prima, quel giorno arrivano diverse barche, quella chiamata del “3 ottobre” arriva vicinissima alla costa, si vedono le luci, perciò il capitano spegne il motore per aspettare l’arrivo dei soccorsi. Passano due imbarcazioni ma non si fermano: girano intorno alla loro e poi se ne vanno. Il capitano cerca di far ripartire il motore che aveva spento, senza riuscirci. Allora pensa di mandare un segnale con il fumo, bruciando un pezzo di stoffa imbevuto di benzina, però a bordo non avvisa nessuno.
È un attimo, un lampo, il fuoco. Il capitano spaventato getta tutto in acqua ma le persone, che non capivano quel che accadeva, si spostano tutte, nello stesso tempo, nella stessa parte della barca, per sfuggire alle fiamme. Così la barca si capovolge. Non ha preso fuoco, infatti è integra sul fondale. I ragazzi che si sono salvati hanno nuotato quattro ore…».
«Puoi raccontare alcune delle storie di questi ragazzi?».
«Sì, ho conosciuto alcuni ragazzi che si sono incontrati durante il viaggio, erano in quattro e non si conoscevano in Eritrea, però sono diventati amici. Sono andati insieme prima in Sudan e poi in Libia, a Mesra, lungo la costa, dove hanno passato molti mesi prima di potersi imbarcare. Trascorrevano le giornate insieme condividendo pensieri e cibo. Di questi quattro ragazzi, uno non si è imbarcato perché la barca era già troppo piena, ancora oggi è in Libia.
Gli altri tre si sono imbarcati per Lampedusa, due sono sopravvissuti alla tragedia, uno invece è morto nel naufragio. I due sopravvissuti hanno aiutato i parenti nel riconoscimento, del loro amico, perché per le famiglie che non li vedono da molto tempo, riconoscerli non è semplice. Il ruolo che hanno avuto i ragazzi sopravvissuti per il riconoscimento delle vittime è stato fondamentale. Fuori dal campo, alla stazione dei carabinieri di Lampedusa, i parenti delle vittime cercavano i propri cari. I ragazzi, potendo uscire dal campo, li incontravano, li aiutavano e li accompagnavano per riconoscere le vittime. Il loro dramma non si è concluso salvandosi e toccando terra ma andrà avanti fino a quando non ci sarà il rimpatrio di chi era con loro e non ce l’ha fatta.
Una questione che non capiscono è come mai, alle porte di Lampedusa, i soccorsi siano arrivati dopo 50 minuti, come mai c’è stato un ritardo così terribile?
Molti di questi ragazzi sopravvissuti arrivavano dal Sinai, cacciati da Israele. Alcuni sono riusciti a ritornare in Sudan, altri sono stati rapiti dai beduini, subendo quello che molti hanno raccontato. Quando riescono a liberarsi tentano nuovamente la via del mare verso l’Europa».
«La stampa internazionale scrive che quella dei ragazzi eritrei è una strada senza ritorno, perché anche se si accorgessero dei rischi non potrebbero più rientrare in patria, è vero?».
«In realtà i ragazzi non sanno cosa li aspetta fuori dal Paese: spesso li mettono in prigione in Libia, prima tappa del viaggio, poi non sanno che potrebbero ritornare in Eritrea. Inoltre per loro il mare è la meta, il ritorno vorrebbe dire ripassare dal Sahara, penso che loro non sappiano veramente quello che succede in Libia, in Sudan, lo capiscono solo quando ormai sono lì. Il pericolo del viaggio in mare è sottovalutato, pensano: ‘che sarà mai?’. Poi si ritrovano sulle barche ad affrontare mal tempo, mare mosso, fame. In balia di gente pagata per traghettarli e far ritorno. Adesso ci sono gli scafisti. Anni fa erano i profughi stessi a guidare i gommoni, ecco perché il viaggio ora dura poco più di un giorno. Prima invece stavano in mare dodici, tredici giorni».
«Com’è avvenuto a Lampedusa l’arresto del trafficante somalo accusato di violenza sessuale?».
«Sì, questa è una storia terribile. O.F è una ragazza di diciotto anni che appena supera il confine con la Libia viene rapita insieme al gruppo con cui viaggia. Vengono chiamati i parenti per il riscatto, c’è chi poteva pagare e chi no. Avevo sentito questa storia perché i ragazzi eritrei ne parlavano tra loro…erano sempre in apprensione per lei. Quando la vedevano passare avevano sempre una parola carina. Ci sono modi di dire in tigrino per esprimere pietà, loro usavano quelle parole.
Lei era molto schiva, stava solo con i ragazzi con i quali aveva fatto il viaggio.
Solo dalla lettura dei giornali, dopo la conferenza stampa, ho conosciuto i dettagli della sua storia, perché senza curarsi di lei come persona, non parliamo di diritto alla privacy, hanno pubblicato nome e cognome. Certo, forse il lettore italiano non lo ricorderà, ma noi eritrei sì, e questa sarà una doppia ferita.
Quando il trafficante somalo “predatore di migranti” Elmi Mohuamud Muhidin è arrivato al campo di Lampedusa lei è stata la prima a riconoscerlo. Il somalo è arrivato con una barca l’ultima settimana di ottobre. Lui lavorava con sudanesi e libici. Prendevano i ragazzi appena entrati in Libia, appena superato il confine. Li rapivano per chiedere il riscatto. Poi li portavano a Mesra, il posto dove devono stare in attesa d’imbarco.
Il somalo è arrivato nel campo senza pensare di essere riconosciuto, invece O.F lo dice ai compagni. Loro, nelle docce, lo guardano, lui capisce di essere stato scoperto e scappa. Viene preso, malmenato. Interviene la polizia del campo che chiede cosa stia succedendo. Il ruolo di questa ragazza è fondamentale perché è stata lei a riconoscerlo e a denunciarlo per violenza e traffico di esseri umani.
Dopo c’è stata la conferenza stampa. I giornalisti a Lampedusa erano tantissimi, però i dettagli della storia sono arrivati solo con la conferenza stampa perché le notizie precedenti erano approssimative. Si sapeva solo che avevano rinchiuso nelle celle del campo un somalo e un tunisino.
Dopo la conferenza stampa i giornali hanno pubblicato tutta la storia. Mi sconvolge che abbiano pubblicato nome e cognome della ragazza che ha denunciato la violenza, certo questa pubblicità non l’aiuterà a vivere e a dimenticare.
Tra l’altro sui nomi dei rifugiati si era già aperta una polemica: La Repubblica ha deciso di non pubblicarli per evitare che i nomi diventassero strumento di ritorsione da parte del governo eritreo contro le famiglie dei sopravvissuti. In realtà tutti i siti dell’opposizione avevano già messo online liste complete di vittime e sopravvissuti.
Questa ragazza, quindi prima è stata protetta perché il suo nome era nell’elenco dei sopravvissuti, quando ha denunciato la violenza, la protezione però è svanita perché faceva notizia.
Due pesi e due misure: nel momento in cui aveva più bisogno di essere protetta nella sua dignità i giornali hanno pubblicato nome e cognome… non c’è stata attenzione.
In Eritrea, come in qualunque altro paese, la violenza subita aumenta la drammaticità della vita di una donna anche se nel nostro Paese gli stupri sono sempre stati rarissimi, ormai del tutto inesistenti».
Marilena Dolce
@EritreaLive
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