Il Khamsin, il vento caldo che spira su Massawa, rendendo infuocate le giornate.
L’Eritrea è un piccolo stato situato nella parte settentrionale del Corno d’Africa e ha un’estrema varietà geografica, dall’infuocato deserto di lava e sale della Dancalia alla fresca ed eterna primavera degli altopiani, dalle calde coste del Mar Rosso alle ambe, le montagne, alte più di 2.000 metri.
In estate la differenza tra le sue due città principali non potrebbe essere più netta. Asmara, la capitale, conserva l’aria frizzante dell’altopiano, mentre Massawa è avvolta dal torrido caldo africano.
Massawa, una città affascinante la cui storia incontra quella italiana nel 1885 quando l’ammiraglio Alessandro Caimi affigge un proclama con la scritta in arabo: “il Governo italiano mi ha ordinato di procedere all’occupazione di Massawa”.
Già nel 1852, prima dell’unità d’Italia, il regno di Piemonte guardava all’Africa per fondare una colonia penale a debita distanza ma è nel 1886, con Giuseppe Sapeto, che si avviano le trattative per l’acquisto della baia di Assab per conto della Società di Navigazione Rubattino di Genova.
All’Italia da poco nazione, non più solo espressione geografica secondo una definizione di Metternich, servono infatti territori coloniali per appagare le mire espansionistiche, serve avere un po’ di terra da coltivare e linee marittime per le proprie navi.
Raffaele Rubattino, armatore amico di Cavour, prenderà possesso formalmente della baia di Assab apponendovi una targa Proprietà Rubattino, allo scopo di farne un porto di servizio per le proprie navi dirette in Oriente, issando ad Assab il primo tricolore.
L’Africa tuttavia non interessa ancora agli italiani, né ai politici né ai contadini né alla borghesia industriale e terriera.
I precursori del colonialismo, per usare un’espressione di Angelo Del Boca, saranno invece gli studiosi, i viaggiatori, i “sognatori”, gli armatori, i missionari cattolici e naturalmente il variegato mondo degli speculatori e degli avventurieri in cerca di ricchezze facili. Tutte persone che, approdate a Massawa, in quella che chiameranno “Eritrea” per il colore rosso del mare, dovranno fin dall’inizio fare i conti con un caldo che, si dice, sia il più terribile della terra.
Scrive Pellegrino Matteucci in Abissinia, (1880) “alla metà di dicembre quando arrivammo a Massawa era un caldo soffocante, forse a noi più sensibile perché arrivavamo dal Nord”.
Ancora più risoluto Ferdinando Martini, governatore di Massawa prima e Asmara poi che scrive in Affrica italiana,(1891) “costruita sopra un banco madreporico che si eleva di poco più di sei metri dalle acque, Massawa vista dal mare promette una quantità di belle cose ma non ne mantiene una a chi si addentra… i palazzi coloniali, masse enormi macchiate di rosso o di grigio orribili nella tinta e nelle linee, di tre o quattro piani in un paese dove certi giorni salire dieci gradini affatica: che diresti caserme rifatte ad albergo svizzero con l’estetica dell’albergatore”.
Nonostante il severo giudizio estetico di Martini in realtà l’architettura, sia quella moresca sia quella italiana, rispetta la temperatura calda e soffocante di Massawa, predisponendo moltissimi accorgimenti per mantenere freschi in modo naturale edifici pubblici, strade, palazzi.
Scrive Pippo Vigoni in Abissinia, giornale di un viaggio, (1881) che, “nella parte superiore le case hanno un’ampia terrazza sulla quale nella sera si pranza, si dorme, con la speranza di trovare requie all’aria affannosa del giorno”.
Ancora oggi Massawa, nonostante la ferita inferta alla sua bellezza dai bombardamenti sovietici e dagli attacchi etiopi terminati nel 1990 con la liberazione, grazie all’operazione Fenkil, (estirpazione) condotta dal FPLE (Fronte Popolare di Liberazione Eritreo), non ha perso il suo fascino, difendendosi dal caldo con una climatizzazione basata sulle antiche scelte architettoniche.
Ampie verande, soffitti alti, portici, pensiline, loggiati e gallerie, permettono la circolazione dell’aria, mentre l’ombra agli edifici è garantita dalle persiane, dalle balconate con balaustre traforate e dalla musharabia, un’originale schermatura lignea fissa o apribile. E poi dalle terrazze su cui appoggiare il letto, l’angareb per cogliere l’aria leggera della notte.
Nei mesi estivi le temperature possono salire ancora di più per l’arrivo del khamsin, (cinquanta in lingua araba) un vento molto caldo e sabbioso proveniente dal deserto del Sahara che arroventa tutto ciò che incontra e che può spirare da aprile a maggio per cinquanta giorni appunto.
Con il khamsin il caldo diventa decisamente meno africano e più arabo, mediorientale, imprimendo alla quotidianità una lentezza necessaria ma snervante non solo per gli occidentali ma anche per gli eritrei dell’altopiano abituati a un clima meno difficile.
Massawa però non si ribella, accetta pazientemente che l’aria calda finisca, combattendola lasciando trascorrere le ore più calde, per rinascere poi, come un fiore della notte, ogni sera con il refolo proveniente dal mare.
L’aria condizionata poco diffusa e la svogliata lentezza delle vecchie pale dei ventilatori a soffitto mantengono un’umidità calda che deve essere affrontata con rispetto, evitando di pensare con rammarico alla presenza capillare dell’aria condizionata che, nelle città di tutto il mondo, sconfigge il caldo con soluzioni polari.
Nei giorni di kahmsin l’Eritrea dimostra la sua totale sintonia tra lifestyle e clima, dimostrando la praticità dell’abbigliamento tradizionale, bianco, chiaro, leggero adatto per fronteggiare il vento caldo.
Il khamsin investe e rende uniforme il paesaggio e offusca gli alberi di pepe, nascondendo, fin dal primo pomeriggio, il colore forte del sole ma regalando in cambio, a chi riesce a coglierla, l’immagine elegante di un’Africa un po’ lunare, dove tutto può essere coperto come nell’antica città di Adulis.
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