Iohannes Ghirmai ha scritto un interessante saggio, frutto del lavoro di analisi svolto dal 2014 al 2016 sull’identità delle seconde generazioni eritree in Italia.
L’autore è parte in causa. Arrivato da piccolo dall’Eritrea, è cresciuto e ha studiato in Italia. Per la sua ricerca lo strumento principale è stato facebook, che gli ha “dato la possibilità di interagire con eritrei di seconda generazione, per un tempo di due anni, grazie alla formazione del gruppo chiuso, Eritrei in Italia”.
Scrive Amartya Sen che l’identificazione con altri membri della stessa comunità sociale può rendere la vita migliore. Il senso d’appartenenza sarebbe un “capitale sociale” positivo. Però se da un lato l’identità può unire le persone, dall’altro le può escludere senza appello, creando fronti opposti.
“Per indagare sul concetto d’identità”, spiega Iohannes, “usare fb è stato il modo più facile e naturale. Non volevo fare interviste per non rischiare indirizzare le risposte. Faccio l’esempio di una ragazza che, sulla pagina eritrea, raccontando di aver subito episodi di razzismo, di essere stata chiamata marocchina, stabiliva un’immediata empatia con il gruppo. Sullo stesso social, però, la stessa persona, dialogando con ragazzi italiani, diceva che quello scolastico era stato per lei un bel periodo della vita senza citare episodi di razzismo. Solo se glielo avessimo chiesto esplicitamente li avrebbe ricordati. Per questo motivo, per la capacità di svelare le contraddizioni, fb per la ricerca sull’identità è stato uno strumento più utile delle interviste dirette”.
L’intento della ricerca, spiega l’autore nell’introduzione, è quello di “definire” gli eritrei che hanno vissuto in Italia diversi decenni ponendo attenzione sul ruolo dell’educazione.
“Chi siamo? Come ci percepiamo noi eritrei in Italia?” Questa è la domanda da cui parte la ricerca dell’identità per poi chiedersi come avviene, se avviene, il salto di qualità, da “ospite” a parte del “tessuto sociale”.
Sono domande che l’autore pone innanzi tutto a sé stesso.
Partiamo dal nome, noi “siamo come ci chiamiamo”. Poi possiamo sentirci anche per quello che facciamo, per quello che pensiamo, per il lavoro che abbiamo, per la religione che professiamo, per lo stato di famiglia o altro ancora.
Tuttavia già il nome apre un primo scenario che Iohannes racconta ricordando il suo lavoro in un call center. Per telefono si presentava alle persone con un nome di fantasia semplice, come Marco Rocchi, o Roberto Parisi un nome che non si memorizzava. Una signora di Catania, al termine di un’intervista gli dice di avergliela concessa “perché le sono simpatici i romani”. “Mi avesse visto”, conclude Iohannes ridendo.
Selam, protagonista del libro “Specchi sbagliati” di Brhan Tesfai, non vuole bene al proprio nome che vorrà anche dire “pace”, ma che per lui ha implicato una continua guerra. “Era il nome che detestava da quando aveva capito che era suo. Nessuno ce l’aveva, tranne lui. Inoltre ogni maestra o professore, dopo averlo sillabato aggiungeva “sai che è un bel nome e che vuol dire pace?”
Continuando poco dopo con la temuta domanda: da dove vieni? Alla quale avrebbe voluto rispondere, “da qui vicino”, essendo nato in Italia poco dopo l’arrivo dei suoi genitori. Il primo capitolo del libro si apre con un numero, 8947, che sono le volte in cui Selam ha dovuto rispondere a tutti i da dove vieni.
Poi a scuola gli tocca il teatrino sulla bellezza del suo paese, dove anche i poveri sorridono, enfatizzato da frasi tipo “tolta la povertà è un bel paese, ma la cosa che mi ha meravigliato è che nonostante la loro povertà sorridono sempre, sono più felici di noi che affoghiamo nel panettone”, dice l’insegnante armato di buone intenzioni inclusive.
“Sono gli insegnanti in buona fede che fanno disastri, quelli che non vogliono fare differenze tra bianchi e neri e che non se ne accorgono mentre le fanno…” dice Iohannes.
Accadeva anche che il professore portasse diapositive per far conoscere il paese “dell’immigrato” agli altri alunni. E di solito mostrava prima le belle foto degli alberghi, del mare con l’acqua trasparente, per poi stigmatizzare che per evitare un nuovo colonialismo sarebbe toccato a Selam essere il “futuro del suo paese”, dopo aver studiato in Italia, naturalmente. Infine, con alle spalle l’immagine di un bimbo con il ventre gonfio, gli chiedeva un parere. Selam avrebbe voluto rispondere, “che ca..o ti aspetti che ti dica?” , Invece gli dava ragione, svolgendo così l’atteso ruolo di congiunzione tra insegnante e classe.
A casa i genitori si aspettano che lui, grazie alla scuola, si assimili, senza stranezze come i capelli rasta. “Che identità ho?”, chiede Selam al padre, che risponde: “quella che vedi nello specchio”. Ma è così?
L’autore, Brham Tesfai, per esempio, non si sente né eritreo, né altro. “Io”, dice Iohannes “durante l’intervista, forzatamente, lo identifico come italiano, ma lui si sente cittadino del mondo. Per questo motivo gli chiedo ma se a Prato tu incontrassi un’anziana signora bendisposta verso di te, magari perché le hai fatto un favore, che ti chiedesse del tuo luogo d’origine, cosa le risponderesti, che sei di Prato? A quel punto, ammette: potrei dirle che vengo dall’Eritrea. Secondo me, anche se lui non la pensa così, il suo vissuto è identico a quello di moltissimi ragazzi eritrei di seconda generazione. Il vissuto di alcuni eritrei, infatti, in questo senso non è diverso da quello di altri di seconde generazioni. Una forma di distanza dalle proprie origini che potrebbe essere l’elemento comune”.
Dice un altro protagonista di Specchi sbagliati “Anche a me un giorno hanno detto che sono della seconda generazione di immigrati, G2. Ma io non sono immigrato. Da quando sono nato vivo nello stesso quartiere”.
L’identità per gli eritrei implica anche l’accettazione del colore della pelle. Superata la connotazione schiettamente razzista, ora, per i progressisti, la “bianchezza” è invisibile, non è superiore perché è “normale”. Come dire che sono sempre “gli altri” a distinguersi per un colore “diverso”. E quindi siamo da capo. “A professò…in Africa…o’ voi capì ch’io nun ce so mai stato?”, dice il ragazzo all’insegnante.
“Poi ci sono gli imbarazzismi, una sorta di razzismo soft che emerge nei molti aneddoti di Kossi Komla-Ebri, da anni medico in Italia ma nato in Togo. Tra i tanti c’è quello di una signora che entrata nello studio dove visitano i medici chiede del “suo” all’infermiera. Purtroppo non ne ricorda il nome, quindi cerca di descriverlo dicendo che è alto, con gli occhiali… ma siccome l’infermiera, perfidamente, non l’aiuta, aggiunge il negrettin. Per lei colore della pelle e identità coincidono.
Il sociologo Maurizio Ambrosini afferma che, anche in Italia, è in aumento il numero di giovani di origine straniera che non sono mai stati nel proprio paese d’origine dove, al massimo, vanno in vacanze. Una condizione però che non li aiuta a sentirsi italiani.
Per quanto riguarda la diaspora eritrea, spiega Iohannes, si divide tra chi è arrivato in Italia negli anni Settanta, scappando dalla dominazione etiopica e chi è arrivato in seguito.
Oggi dall’Eritrea, diventata indipendente nel 1991, arrivano i giovani che i giornali chiamano “profughi”, che lasciano il paese per motivi quasi sempre economici e che restano in Italia il minimo indispensabile prima di raggiungere i paesi del nord Europa.
Il tema della migrazione e l’arrivo dei connazionali è diventato un argomento scottante per gli eritrei, non abituati a fare i conti con una stampa ostile. Così si sono divisi in due gruppi, quelli a favore del Paese e quelli che ripetono quanto leggono sui giornali, cioè che l’Eritrea è una “Corea del Nord Africana”, un “inferno” da cui fuggire.
“Ci sono”, spiega Iohannes, “eritrei con una doppia identità, che si sentono un ponte tra la madre patria e l’Italia, ma anche eritrei che, pur sentendo fortemente la propria eritreità, mantengono un forte legame con l’Italia. “L’orgoglio identitario è più forte negli eritrei che conoscono la storia della lotta per l’indipendenza rispetto a quelli che, non conoscendola, vivono come le altre seconde generazioni, identificandosi magari grazie al rap, all’hip hop, oppure allo sport”.
“La questione dell’identità gli eritrei ce l’hanno nel profondo” continua Iohannes “I trent’anni di lotta per l’indipendenza sono stati anni costitutivi”. Il vecchio governo etiopico ha sostenuto sempre il regionalismo, l’Eritrea invece l’unità nazionale. L’Eritrea nasce discutendo di sé stessa. Il problema è che una volta conquistata l’indipendenza è stata costretta a difenderla arroccandosi. Il piano dell’Etiopia era quello di far vivere in allerta l’Eritrea. Però non hanno considerato che i trent’anni di durissima lotta, hanno formato persone in grado, anche se a malincuore, di condividere i tempi bui, le difficoltà.
In questo momento la comunità eritrea in Italia è formata soprattutto da eritrei arrivati da poco. I giovani che vivevano in Italia da tanti anni, sono andati a lavorare o a studiare all’estero, come i milanesi o i romani. A Londra vivono moltissimi eritrei del tutto assimilati che non partecipano più alle feste dell’indipendenza frequentate invece da chi è arrivato recentemente”.
“Tornando al senso d’identità eritrea, direi, per concludere, che ad averlo molto forte sono i figli di chi era parte del Fronte Popolare. Nel gruppo fb una ragazza eritrea fa un’importante affermazione, dicendo di non essersi sentita per lungo tempo né eritrea né italiana, per poi rigettare questa passività quando è riuscita a guardare le due culture senza paura. Questo è il sentimento vissuto dalle seconde generazioni eritree”.
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