EritreaLive intervista Rahel Seium, responsabile giovani eritrei in Europa
EritreaLive intervista Rahel Seium, responsabile giovani eritrei in Europa
La diaspora eritrea comprende un gruppo di giovani nati all’estero che mantengono le radici con il proprio paese. Ne parla la presidente per l’Europa, Rahel Seium.
Rahel ci racconti quando e perché arriva in Italia…
Nasco ad Asmara nel 1980 dove passo i primi nove anni della mia vita con la nonna, la zia e anche gli zii vicini di casa. Tutti loro si occupavano di me.
Mia mamma nel 1982 era partita per l’Italia con un permesso di lavoro sperando di ottenere subito dopo il ricongiungimento familiare, che invece non arriverà così presto. Ogni anno la mamma tornava in Eritrea con la speranza di portarmi con sé. Però c’era sempre un cavillo che lo impediva.
Nel 1989 finalmente riesce a organizzare il mio viaggio verso l’Italia. Parto da Addis Abeba, però da sola perché mia mamma, per motivi di lavoro, non può venire a prendermi. Così mi imbarco affidata a una hostess.
La spaventa viaggiare per la prima volta in aereo e per giunta da sola?
No. Il viaggio non mi è pesato. Ero una bambina curiosa e vivace. Quando arrivo a Roma però mia mamma, che per l’emozione non si era sentita bene, non c’è. Al suo posto c’è un amico che conoscevo per averlo visto in foto. Lo dico alla hostess che mi affida a lui. Poco dopo ci raggiunge anche la mamma e tutti e tre andiamo a Pescara.
Dove la mamma già viveva?
Sì. La mamma viveva a Pescara dal 1982. Aveva, come molti, scelto l’estero per rifarsi una vita. In quel momento storico (ndr l’Eritrea negli anni Ottanta è parte dell’Etiopia governata dal Derg con a capo Menghistu Heile Mariam) gli eritrei andavano all’estero o si univano al Fronte (ndr Fronte Popolare di Liberazione Eritrea, Fple) per combattere. Lei è giovane, nel 1982 aveva 18 anni, io sono nata quando ne aveva 16. Così parte per l’estero. Ma espatrio e separazione sono esperienze dure. Dopo un anno ritorna in Eritrea e pensa di rimanervi. Le sembrava di non farcela. Sono i parenti che la convincono a resistere e ritornare in Italia.
Così lei Rahel arriva in Italia. Come sono stati i primi tempi?
Appena arrivata mi rendo conto che i miei affetti più profondi li ho lasciti in Eritrea. La mamma quasi non la conosco. Con lei devo recuperare sette anni. All’inizio la tratto come una sorella. Ero abituata a chiamare mamma la nonna. Non è stato semplice cambiare. Lei mi chiedeva, “chiamami mamma”, ma io non ci riuscivo. La chiamavo per nome.
Oggi quando lo racconto a mia figlia, lei mi chiede come abbiamo potuto farcela. Ma allora non c’era scelta.
Poi arriva il momento della scuola…
Si. Io sapevo che, anche se avevo nostalgia dei nonni, degli amici, dei vicini di casa, non poteva esserci un ritorno. E la scuola è la mia vita fuori di casa.
La mia prima preoccupazione è imparare la lingua.
Mi sentivo strana. La notte avevo gli incubi. Non mi sembrava possibile non capire gli altri bambini, non poter parlare con loro.
Quando sono arrivata parlavo tigrino. Il maestro non mi capiva. Così ho cominciato a scrivere in tigrino la fonetica italiana. Poi a casa chiedevo alla mamma cosa volessero dire le singole parola che avevo sentito. E mia mamma, che aveva imparato l’italiano già ad Asmara, leggendo i fotoromanzi, mi spiegava e mi aiutava.
A un certo punto divento brava e a scuola mi portano ad esempio.
I miei temi, dice il maestro, sono scritti meglio di quelli dei miei compagni. “Lei scriveva in giaggianese”, dice il maestro, aggiungendo, “ora scrive meglio di tutti voi”.
Questa è stata la mia prima grande vittoria.
Così le lingue diventano alleate, non più nemiche…
Sì. Mi sono laureata all’Università di Pescara in lingue, come interprete e traduttrice. Competenze che mi servono per il primo lavoro presso l’Arci sempre a Pescara.
E la lingua madre?
Mia mamma ha sempre cercato di fare in modo che io non perdessi il tigrino. I miei compagni di scuola erano tutti italiani. Il rischio di dimenticare la lingue perciò era concreto. Così la mamma decide che, anche per tenere viva la lingua, dobbiamo tornare spesso in Eritrea.
E per lei com’era tornare in Eritrea?
Mi accorgo che i parenti mi vedono diversa. Cominciando proprio dalla lingua perché parlavo mischiando parole tigrine e italiane. Così decido, per affetto verso la mia terra e le persone a me care, non solo di non dimenticare il tigrino, ma anche di parlarlo meglio.
Certo Pescara non è Roma o Milano. Non c’è una comunità eritrea che può aiutarti, per esempio insegnandoti la lingua. Invidiavo chi, vivendo in città più grandi, aveva la possibilità di incontrare altri eritrei come accadeva, per esempio, a Bologna durante il Festival.
Dopo la maturità con un gruppo di amiche decidiamo di andare a studiare inglese in Inghilterra. E lì, per la prima volta, ho conosciuto molti altri giovani eritrei. Ho visto il loro impegno per la comunità Eritrea.
Perciò decide anche lei di impegnarsi nel gruppo dei giovani della diaspora?
Nel 2005 c’è la seconda Conferenza dello YPFDJ, organizzazione che nasce nel 2004. In quegli anni conosco un medico eritreo di Pescara che mi chiede se voglio partecipare alla Conferenza e io decido di provare.
È l’occasione per conoscere persone orgogliose del proprio essere eritrei, anche vivendo all’estero. Decido perciò di mettere a disposizione le mie capacità e ciò che so, nel mio caso, dell’Italia. Organizzo un piccolo gruppo di lavoro e ci incontriamo una volta al mese.
Nel 2014 divento presidente dei giovani eritrei in Italia. E nel 2018 dei giovani eritrei in Europa. Nel frattempo il gruppo cresce tantissimo. Nel 2005 eravamo 70 giovani, nel 2012 alla Conferenza in Svezia siamo 700.
Cresce il movimento e crescono le competenze dei giovani. Molti, ma non tutti, parlano quattro o cinque lingue.
Giovani eritrei che vivono in Paesi differenti e che, quando si incontrano, devono avere una lingua comune, come fate?
Durante le conferenze parliamo per lo più inglese o, come diciamo, tinglish, mezzo tigrino, mezzo inglese. Però c’è bisogno anche di traduzione simultanea, soprattutto per chi viene dall’Italia e non sa l’inglese.
Questo perciò è stato il mio primo impegno. Fin da quando ero studentessa universitaria durante le conferenze traducevo in simultanea. Per anni ho fatto questo. Traducevo gli interventi sia dal tigrino sia dall’inglese in italiano. Anche ora ci sono altri che lo fanno.
Le madri eritree, uscite dal Paese per lavorare all’estero, incoraggiamo i figli a studiare, anche a laurearsi…
Si, assolutamente. A volte per i figli è difficile soddisfare le aspettative. Però l’appoggio delle madri è sempre stato un fattore di spinta per crescere.
Cosa pensa delle donne della diaspora, del loro combattere dall’estero per sostenere la lotta e raggiungere l’indipendenza?
Il loro è stato un ruolo fondamentale. Si pensa a chi ha combattuto in patria ma le donne all’estero non hanno girato le spalle alla lotta. Anzi. Hanno aiutato in tutti i modi la lotta armata, soprattutto a livello economico. Ci sono ancora donne, ora in pensione, che partecipano a tutti gli incontri perché l’Eritrea è parte di loro stesse.
Inoltre, combattendo, le donne eritree quanto a parità hanno bruciato le tappe. Dopo l’indipendenza (ndr 1991)si sono guadagnate ruoli pubblici, senza più discriminazioni. Il loro valore è stato riconosciuto.
La Diaspora eritrea in che rapporti è con le diaspore di altri paesi presenti in Italia?
Negli anni passati le diaspore non hanno mai trovato un punto comune. Ognuno voleva primeggiare. Negli ultimi anni invece i rappresentanti delle diaspore hanno capito il valore della collaborazione. L’unione può diventare il mezzo per avere un buon collegamento con i paesi d’origine. Nessuno meglio delle diaspore conosce le necessità nei paesi di provenienza. Un plusvalore riconosciuto non solo in Eritrea ma nella stessa Unione Africana.
Se il ruolo è riconosciuto dal Paese di provenienza e dal Paese ospitante, la diaspora diventa un motore per lo sviluppo. Si pensa all’Africa solo per il turismo ma in realtà ci sono altri tipi di investimenti che possono portare a una crescita dell’Africa.
Io collaboro con le diverse diaspore. Ognuno di noi fa conoscere le proprie tradizioni. Però discutiamo anche di antirazzismo, integrazione, sviluppo.
Le diaspore sono un ponte fondamentale tra i due paesi, di provenienza e di arrivo.
Nel caso dell’Eritrea la diaspora ha un ruolo importante e riconosciuto.
I ragazzi nati e cresciuti qui potrebbero non avere interesse per il proprio paese, invece vogliono contribuire alla sua crescita e al suo sviluppo.
“L’Eritrea è uno stato mentale”, così c’era scritto sulle nostre magliette durante un festival. E per noi è proprio così. Pensiamo che si debba collaborare sia per costruire il Paese sia per avere un’identità. Perché l’Eritrea che oggi conosciamo prima non esisteva.
Un tempo chi espatriava perdeva la propria identità, senza avere quella del paese ospitante Come succedeva in Italia. Ora ovunque tu sia, sei eritreo.
Gli eritrei nati all’estero come sono visti da chi vive nel Paese? Possono essere un traino per l’emigrazione?
Si, questo capita e capitava anche tempo fa.
Un mio parente ogni volta che tornavo in Eritrea mi diceva che anche lui voleva vivere in Italia. Io gli spiegavo quello che vedevo. E cioè che per molti ragazzi arrivati dall’Africa, l’Italia voleva dire vita di stenti, magari vendendo accendini ai semafori. Lui però rispondeva sempre che ce l’avrebbe fatta.
L’invidia, se così si può dire, era vedere i nostri bei vestiti e le cose che portavamo. Lussi relativi per i quali noi facevamo una vita più dura della loro. Ma ad apparire erano solo le cose belle non i sacrifici. A loro non mancava nulla. Con le rimesse i parenti di chi lavora all’estero vivono bene. Però l’idea di rimanere in Eritrea allora non c’era. Il futuro era l’Occidente.
Prima dell’indipendenza il futuro era immaginato in Occidente?
Si. Un sentimento comune agli eritrei è che la loro forza può sostenerli e portarli sempre alla vittoria. Spesso ho sentito dire, “solo questo siete riusciti a fare? Se io fossi stato all’estero avrei fatto di più”.
I ragazzi che nascono qua si trovano a dover scegliere tra tradizione e omologazione?
I ragazzini più piccoli vogliono sempre sentirsi uguali agli altri. Penso siano fasi della vita. Si disegnano “rosa”. Solo crescendo si identificano con loro stessi e si vedono “neri”. In questo senso conoscere il proprio paese e le proprie origini è fondamentale.
Poi però crescendo arriva anche l’orgoglio, il sentimento d’appartenenza…
Si lo vedo anche nella sezione dei giovanissimi. Sono interessati alle parole tigrine, all’inno nazionale e così via.
In Italia secondo me esiste oggi un razzismo beneducato. Al netto degli estremisti i più si ritengono non razzisti. Vale anche qua, però, ciò che diceva Giorgio Gaber cioè che “l’uomo più antirazzista, quando sua figlia sposò un uomo di colore, lui disse, bene, ma non era di buon umore”?.
Se ci si conosce, intendo tra amici, il razzismo in Italia non esiste. I miei migliori amici sono italiani. Come del resto quando andavo a scuola. Gli amici eritrei li sento ma li incontro meno perché abitiamo lontani. In Italia c’è un’educazione che arriva anche dalla chiesa cattolica che è per l’uguaglianza, senza razzismo. Quello italiano è più un razzismo da bar, fatto di battute infelici che non un razzismo politico come succede invece in Inghilterra.
In Italia è ancora forte il passato da migranti.
Il razzismo però per me è stato non quello della gente ma quello delle istituzioni. Quando avrei voluto andare all’estero e non ho potuto perché non avevo ancora la cittadinanza italiana. In quel caso ho sofferto e ho sentito la differenza con i coetanei.
E del colonialismo italiano in Eritrea cosa pensano i più giovani?
I giovani sono più consapevoli rispetto alle generazioni precedenti. Chi ha convissuto o è nato subito dopo il 1941 racconta il colonialismo italiano come il male minore. Mentre i più giovani sono informati. Conoscono bene la storia e non condividono per niente l’idea di un colonialismo romantico. Soprattutto nei confronti delle donne. Ma non mi riferisco solo alla polemica su Montanelli e la sua sposa bambina, di cui si parla in questi giorni. Il problema è che, al di là dell’amore che poteva nascere tra un soldato e una donna eritrea, il più delle volte si è trattato di storie violente, di schiavitù umana e sessuale. Le donne eritree hanno sofferto molto. Sopportato tantissimo. La storia dovrebbe essere scritta nuovamente.
Del colonialismo italiano in Eritrea si scrive che sono state costruite strade, è stata fatta la teleferica, si sono costruite case. Ma per chi? La brutalità verso gli eritrei va raccontata.
L’Italia ha costruito in Eritrea il proprio posto al sole.
I ragazzi eritrei hanno un’opinione precisa e molto negativa sul colonialismo italiano.
In Eritrea il processo di decolonizzazione ha avuto più effetto. rispetto ad altri Paesi. Noi, per esempio, non parliamo più la lingua del colonizzatore.
Però tutti i “bianchi” continuano ad essere ‘talian. Anche questo è un esempio di colonizzazione.
Va anche detto che nell’ultima fase del colonialismo, l’Italia appoggia e condivide la lotta del popolo eritreo per l’indipendenza.
I giovani della diaspora possono aiutare a costruire una nuova narrativa sul continente e sul proprio paese, eliminando molti luoghi comuni?
Sì. Penso che nella diaspora di ciascun paese ci siano giovani di talento e che siano loro a poter contribuire a una nuova storia tra paese ospitante e paese d’origine
Quanti sono i giovani che aderiscono al movimento dello YPFDJ?
Iscritti sono circa 600. Però tantissimi vengono per sentire e partecipare alle nostre conferenze, anche senza iscriversi. I giovani lavorano tutto l’anno per l’organizzazione dei quattro giorni di conferenza annuale. Sono loro che organizzano e propongono i temi, ed è tutto volontariato. Anche i relatori partecipano gratuitamente.
Quindi è un’organizzazione di gente giovane che lavora volontariamente per il Paese pur vivendo all’estero…
Esatto. Non c’è obbligo e neppure giudizio. È anche un modo per imparare, com’è successo a me. Le competenze per organizzare le nostre conferenze infatti le ho usate anche per sul lavoro.
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