Eritrea, sotto la lente delle Nazioni Unite
Il rapporto dello scorso luglio, stilato dal Gruppo di Monitoraggio Eritrea-Somalia, non ha convinto, troppi gli errori.
La pubblicazione annuale del rapporto Semg, Gruppo di Monitoraggio Somalia-Eritrea è stata fortemente criticato da alcuni paesi, Norvegia, Italia, Kenya, Somalia e, naturalmente, Eritrea che hanno giudicato «infondate e faziose» le accuse esposte in tale rapporto, disponibile online (pdf) sul sito Onu, come già scritto in “Eritrea, sanzioni arma letale”.
La Russia ha chiesto che, proprio per l’inconsistenza delle accuse, («biased and groundless») non fosse pubblicato.
Durante un incontro del Consiglio di Sicurezza, svoltosi a porte chiuse, altri Paesi (Cina, Pakistan, Azerbaijan, Togo, Ruanda) hanno preso le distanze dalle parole del rapporto il cui obiettivo è quello di giustificare il permanere delle sanzioni contro l’Eritrea. Persino dall’interno del gruppo è arrivato un commento critico che ha definito il lavoro «non brillante».
Le relazioni Semg non hanno sempre suscitato grande interesse.
Il lavoro del Gruppo di Monitoraggio, iniziato nel 2002, si è svolto a lungo in silenzio, senza che le sue relazioni fossero pubblicate, con raccomandazioni che, spesso, rimanevano sulla carta.
L’uscita del Gruppo dal cono d’ombra è avvenuta quando il suo lavoro è diventato lo strumento per stabilire, sul campo, se l’Eritrea violasse l’embargo Onu per la vendita di armi alla Somalia, acquistasse armi per sé, appoggiasse l’organizzazione fondamentalista “Al Shabab”. In tal caso le sanzioni, stabilite nel 2009, risoluzione 1907, sarebbero state giuste.
La presentazione dell’ultimo rapporto (luglio 2013) ha però innescato il problema dell’attendibilità delle prove per rinnovare le sanzioni: le delegazioni russe e cinesi, infatti, hanno chiesto una sessione speciale del Comitato per le Sanzioni per verificare la correttezza del metodo di lavoro del Semg.
Poiché, com’è stato detto, il dubbio sul rigore metodologico compromette l’attendibilità del rapporto, un gruppo di esperti, chiamato a dirimere la “questione prove”, ha detto che bisogna identificare le fonti delle informazioni contenute nelle relazioni per garantire che tali informazioni siano il più possibile trasparenti e verificabili, assicurando così credibilità ai risultati. Bisogna, inoltre, controllare le citazioni e i fatti, i documenti presi in esame devono essere verificati, le affermazioni suffragate da informazioni solide in modo che i risultati siano certi.
Insomma queste indicazioni lasciano capire che il rapporto presentato lo scorso luglio dal Gruppo di Monitoraggio non ha rispettato i requisiti di credibilità stabiliti dal Consiglio di Sicurezza stesso.
Le fonti del rapporto sono vaghe: «disertori», «autorità dei paesi dell’Africa Orientale», «contatti governativi operativi».
Inoltre l’Eritrea non è stata informata del contenuto del rapporto, nonostante il Consiglio di Sicurezza inviti i Gruppi di Monitoraggio a «mettere a disposizione delle parti coinvolte qualsiasi prova di comportamento illecito, perché possano sottoporla a revisione, commento, risposta», tutto ciò per garantire correttezza e imparzialità».
Invece il Gruppo di Monitoraggio ha negato all’Eritrea l’accesso alle “prove”, anche dopo che il contenuto di tale rapporto era trapelato, arrivando ai media.
In Italia il settimanale “L’Espresso” ha pubblicato il 25 luglio scorso un reportage, “Eritrea Connection” basato su tale documento, ricevuto “in esclusiva”.
Un atteggiamento sconcertante che alimenta l’impressione di un rapporto costruito su “tradunt” e frasi puntello, quelle usate nell’antica tradizione orale greca per “connettere” episodi diversi cui dare un’armoniosa unità.
Marilena Dolce
@EritreaLive
Fonte TesfaNews, Eritrea: The Need to Monitor the Work of UN Monitors
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