Eritrea, nuove prospettive per il paese
Eritrea, nuove prospettive per il paese.
Nel 2015 in Eritrea siamo andati in molti. Politici, giornalisti, analisti, studiosi. Per vedere e raccontare cosa accade nel paese “più chiuso” del Corno d’Africa. Per i politici si trattava di capire se vi fossero nuove prospettive.
Al di là dei numeri forniti dalle organizzazioni internazionali, la domanda è: da cosa e perché scappano i giovani eritrei?
Se vi fossero nuove prospettive se ne andrebbero ugualmente?
Per chi è stato recentemente nel paese le risposte non sono difficili.
Si possono avere girando per le strade.
Guardando la gente che rientra dal lavoro, che aspetta l’autobus. Andando al mercato dove i banchi sono pieni di frutta e verdura. Osservando le code dove si acquista con i buoni dello stato. Oppure vedendo i bambini che tornano da scuola, i ragazzi in bicicletta. La gente seduta al Cafè, le famiglie al ristorante. Pochi i mendicanti, nessuno che muore di fame, neppure nei quartieri più poveri.
Se si esce dall’albergo internazionale dove in genere si alloggia, per andare non in centro, nell’europea Harnet Avenue, ma in periferia, nella zona di Abba Shawl, verso le cinque del pomeriggio si incontrano le persone che rientrano a casa. Si può parlare con loro.
Oppure si può andare a Ghezza Tanika, altro quartiere periferico, abitato soprattutto da etiopici poveri che arrivavano ad Asmara in cerca di lavoro. Il nome “tanica” allude infatti alle taniche usate per i rifiuti, perché facevano i netturbini.
Sono quartieri periferici poveri, non disperati.
Ai giovani che vi abitano si può chiedere che futuro vorrebbero.
Rischierebbero la morte in mare pur di andarsene? Considerando che in Eritrea, non solo nella capitale ma un po’ ovunque ci sono parabole e televisioni, probabilmente molti risponderebbero: “se potessi me ne andrei, per vivere meglio, per vivere come vedo in tv”. Oppure, “conosco molti che se ne sono andati, so di qualcuno che è morto”.
Se in televisione si vede un mondo ricco, se amici e parenti confermano che all’estero si può vivere bene con un sussidio, perché devo aspettare nuove prospettive nel mio paese? Perché devo vivere con un basso salario?
I ragazzi che partono dall’Eritrea sono figli di chi ha combattuto. Sono una generazione che ha studiato, al contrario dei padri, per non dire dei nonni. Tutti loro, ovunque abitino, sono andati a scuola gratuitamente, fino a 17 anni, per poi entrare a Sawa, il campo dove si frequenta l’ultimo anno. Un anno di svolta.
Secondo il rapporto presentato a Ginevra lo scorso giugno dalla Commission of Inquiry (COI), la scuola di Sawa è la ragione delle fughe. È l’anticamera del servizio nazionale, militare o civile. Sia chi continuerà gli studi sia chi farà un corso professionale poi lavorerà per lo stato. E lo stato, finora, ha pagato poco. Quindi alla domanda, perché lasci il paese, scegliendo anche strade pericolosissime, la risposta più comune sarà: “per guadagnare meglio”.
Ma, se dicessero questo, una volta arrivati in Europa i giovani eritrei diventerebbero “migranti economici”, quindi perderebbero le tutele umanitarie garantite dalla Convenzione di Ginevra.
Non solo. Nei “fogli notizie” distribuiti dalle prefetture italiane e compilati dai migranti c’è una casella “in cerca di lavoro”. Se il migrante la barra perde, tecnicamente, la possibilità di chiedere asilo, rientrando nella categoria “migrante economico”. Il rischio, se ci sono accordi bilaterali, è il rimpatrio.
Quindi, per chiedere asilo, provenendo da un paese dove non c’è guerra, chi emigra dall’Eritrea deve dichiararsi perseguitato politico.
“La politica degli Stati Uniti negli ultimi 10 anni ha incoraggiato la migrazione degli eritrei, specialmente di quelli giovani e istruiti” dice Yemane Gebreab, advisor del presidente Isaias Afwerki in una recente intervista al Guardian, giornale che non risparmia critiche al governo di Asmara.
Nel 2012 l’amministrazione Obama appoggia pubblicamente le organizzazioni che fanno uscire i giovani eritrei dal paese. Se per tutti è difficile ottenere asilo in Occidente, per gli eritrei è sufficiente dichiarare di scappare per motivi politici. Situazione per cui molti africani si dichiarano “eritrei” facendone aumentare il numero.
Il risultato, per inchiodare l’Eritrea, è doppio. Da un lato si ha lo svuotamento del paese, dall’altro la costruzione, attraverso i media, della cupa storia di uno stato militarizzato da cui fuggire.
Osman Saleh, ministro degli affari esteri eritreo, nell’intervento alla 71° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha detto: “La nostra gente, in particolare i nostri giovani, sono stati presi di mira, attraverso politiche che hanno incoraggiato attivamente la loro migrazione che porta a molte sofferenze e perdite di vite prese dai trafficanti di esseri umani. Politiche il cui esito inevitabile è stato presentato come prova contro l’Eritrea”.
In questo contesto, per capire la situazione eritrea, oltre a visitare il paese, è necessario guardare alla vicina Etiopia e al suo rapporto con l’America.
“Il national service”, (ndr, servizio militare e civile nato dopo l’indipendenza) spiega Hagos Ghebrehiwet, responsabile economico del PFDJ durante l’intervista a EritreaLive (dicembre 2015), “è stato prolungato per il problema del confine con l’Etiopia”. “Noi siamo un piccolo paese” aggiunge “ognuno deve essere in allerta, però stiamo facendo dei cambiamenti. Il servizio nazionale è stato ridotto e sta iniziando a essere pagato. Questo potrà cambiare la situazione”.
“il problema dell’immigrazione” dice a EritreaLive Yemane Ghebreab,“è un problema importante e serio connesso anche alla politica dell’Europa e dell’Italia che accettano gli eritrei a braccia aperte perché pensano scappino per motivi politici”. “Invece” aggiunge “in estate ritornano qui, perché è questo il loro paese”. “Per risolvere il problema dell’immigrazione”, conclude, “stiamo fornendo opportunità alla gente: scuole, lavoro, possibilità d’investimento”.
Per capire perché le “opportunità” non sono arrivate nel 1993, dopo il referendum, bisogna ripercorre la storia dall’indipendenza a oggi.
E sulla storia è basata la relazione di Bronwyn Bruton, Deputy Director Africa Center, Atlantic Council. Nel suo intervento dello scorso settembre a Washington, alla sottocommissione Africa per gli Affari Esteri, l’analisi della Bruton ripercorre la storia, con un punto d’arrivo interessante, l’importanza della ripresa del dialogo tra Eritrea e Stati Uniti.
“Sorprendentemente e nonostante i molti attriti” riferisce Bronwyn Bruton,“durante i nostri colloqui il presidente Isaias Afwerki ha ripetuto che le relazioni tra il suo paese e gli Usa sono buone. Convinto anzi che in un prossimo futuro si possa tornare a essere amici”.
Un’amicizia che l’America aveva mantenuto con l’Eritrea indipendente fino allo scontro con l’Etiopia.
La parte storica del lavoro della Bruton è condivisa da molti studiosi. Le considerazioni politiche, invece, sono il risultato dei suoi viaggi, delle interviste, degli incontri. Unico modo per cercare di capire un paese, evitando il paragone ridicolo con la Corea del Nord che infatti lei stigmatizza nel suo intervento.
Ad Asmara il ministro dell’informazione Yemane Ghebremaskel, rispondendo alla domanda sull’accusa di isolamento fatta all’Eritrea, dice a EritreaLive: “l’Eritrea è un paese molto diverso dagli altri che si trovano nella stessa zona geografica. Siamo uniti, tolleranti, conviviamo con differenti etnie e molte religioni. Siamo un paese tranquillo. Non abbiamo mai scelto la chiusura. È un’invenzione dell’estero. Vi riferisco la battuta di un ambasciatore che ha detto ‘chi paragona l’Eritrea alla Corea del Nord, o non è mai stato in Eritrea o non è mai stato in Corea del Nord”.
Tuttavia il raffronto nato, non a caso, con il titolo di un dossier del 2010 di Jeune Afrique, è duro a morire.
Il problema per l’Eritrea però non è la Corea del Nord ma l’Etiopia, paese geograficamente vicino.
Alla fine della seconda guerra mondiale i destini dei due paesi si intrecciano a scapito dell’Eritrea che diventa moneta di scambio tra America ed Etiopia.
L’America e gli alleati vittoriosi decidono, infatti, di mantenere stretto il legame con l’impero etiopico acconsentendo a dare in cambio l’Eritrea, prima federata poi annessa.
Nel 1961 in Eritrea si formano i primi gruppi che lotteranno per l’indipendenza conquistata trent’anni dopo.
Nel 1991 Eritrea ed Etiopia sconfiggono il Derg di Menghistu Heilè Mariam. L’Eritrea conquista l’indipendenza. Per entrambi i paesi si aprono nuovi scenari.
L’Etiopia, con a capo Meles Zenawi e il TPLF, Tigrayan People’s Liberation Front, sceglie come forma di governo il federalismo etnico. Un modo per evitare l’accentramento imperiale. Di fatto una democrazia senza democratizzazione che consente alla minoranza tigrina(6.1%) di governare da sola, senza lasciare spazio a Oromo (34.5%), Amhara (26.9) e altre etnie.
Situazione che ora sta esplodendo.
Dice la Bruton nella sua relazione: “la situazione sta cambiando rapidamente nel Corno d’Africa. I recenti accadimenti in Etiopia hanno messo a nudo la brutalità e l’instabilità di un governo che gli Stati Uniti hanno usato per anni come alleato nella regione. Negli scorsi mesi più di 500 dimostranti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine etiopiche nelle strade delle regioni degli Oromo e degli Amhara”.
Parlando del rapporto con l’Etiopia lo scorso dicembre, durante l’intervista ad Asmara, Yemane Ghebreab mi ha detto: “L’Etiopia sta affrontando oggi una situazione interna molto difficile. Nella regione degli Oromo, nella parte meridionale del paese, la gente sta scendendo in strada contro il governo. Ci sono stati molti morti tra i manifestanti, gente pacifica, studenti”.
Dopo l’indipendenza, in Eritrea, il movimento di liberazione diventa partito, People’s Front for Democracy and Justice, PFDJ, e il suo leader presidente. Nazione è il principio fondante del nuovo stato.
La lotta li ha uniti, la nazione però dev’essere costruita.
Per questo la ripartizione etnica è evitata. Si creano le regioni e si introduce il servizio nazionale per lavorare insieme, con spirito di autosufficienza, selfreliance.
Scottati dall’acqua calda, gli eritrei ora hanno paura anche di quella fredda. Non si fidano degli aiuti occidentali, vogliono organizzare da soli il proprio futuro.
Futuro spezzato troppo presto dalla guerra con l’Etiopia.
Un conflitto per una questione di confini ex coloniali che durerà due anni. Quindi, ad Algeri, si sottoscrive un accordo di pace che si rivelerà un nulla di fatto.
L’Etiopia non lascerà la zona intorno a Badme, riconosciuta eritrea e la comunità internazionale non interverrà. Anzi, da quel momento, Stati Uniti ed Europa saranno ostili all’Eritrea.
L’Eritrea precipita perciò in una situazione di guerra fredda che la costringe, ancora oggi, a spiegare perché c’è il servizio nazionale, perché ci sono militari sul confine occupato dagli etiopici, perché l’economia ristagna. Perché il paese è povero.
“L’asimmetria di trattamento degli Stati Uniti per questi due paesi” dice Bronwyn Bruton “crea fra i funzionari eritrei un giustificato senso di ‘ostilità‘ verso Washington, ritenuta responsabile della sofferenza degli ultimi 18 anni”.
Al punto che, riporta l’analista, Yemane ritiene che responsabile della situazione di stallo tra Eritrea ed Etiopia sia proprio l’America.
Nell’intervista dello scorso dicembre, alla domanda su una possibile pace con l’Etiopia, Yemane risponde: “se fosse solo una guerra tra Eritrea ed Etiopia si sarebbe già risolta. Il problema sono gli Stati Uniti che ritenevano che l’Eritrea non potesse essere indipendente. Se gli Usa avessero avuto una posizione ferma sulla decisione presa sui confini, non saremmo nella situazione in cui siamo oggi”.
In questi anni però l’Eritrea non è rimasta in attesa.
Ha trovato nuovi partner commerciali, guardando oltre l’America, dice la Bruton. I paesi del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, l’Arabia Saudita e la Cina hanno ora rapporti economici e istituzionali con l’Eritrea. Relazioni sufficienti perché l’Eritrea possa guardare con maggiore distacco alle scelte di Washington.
Nell’analisi presentata a Washington l’Eritrea emerge come uno stato di cui si sono sottovalutate stabilità, unità e coesione. Armi contro il terrorismo. “L’Eritrea è stata una forte barriera contro il dilagare di ideologie radicali” dice la Bruton “Un ruolo” prosegue “per cui ha ottenuto scarso riconoscimento”.
Ora l’Eritrea è entrata nell’agenda europea, per il problema migranti.
Anche se le statistiche precisano che l’Europa accoglie meno profughi rispetto a paesi più direttamente coinvolti come Libano o Turchia, lo sforzo europeo è fermare chi, come nel caso eritreo, fugge per motivi economici non per la guerra.
Sul fronte migrazione l’Eritrea si è impegnata con l’Europa nel processo di Khartoum, ha partecipato al summit di Roma e agli incontri alla Valletta.
Le delegazioni straniere andate in Eritrea per vedere cosa vi accade non hanno trovato uno stato di polizia, piuttosto la necessità di garantire la crescita del paese, di dare ai giovani nuove prospettive.
Quello che si deve stroncare è, chiede l’Eritrea da tempo, il traffico di persone reclutate dai trafficanti nei campi profughi dei paesi confinanti. Bisogna evitare che, a caro prezzo, siano avviate verso il pericoloso viaggio in mare.
“Perché” dice Yemane in un’intervista alla RSI, radiotelevisione della Svizzera italiana, “non possiamo trovare un accordo per permettere a un certo numero di giovani di prendere l’aereo da Asmara e arrivare a Ginevra o altrove e lavorare lì? Persino se stai morendo e vuoi un trattamento medico, se vuoi studiare lì, se vuoi andare a trovare tua madre, non puoi, non ti danno il visto. L’unico modo per raggiungere la Svizzera è attraverso il mare…”.
Il discorso della Bruton a Washington si chiude con l’invito perché America ed Eritrea riprendano, con la nuova amministrazione, le buone relazioni esistenti un tempo.
Un discorso che non è piaciuto per niente all’Etiopia che sul sito del Ministero degli Affari Esteri attacca l’analista. Scrivono, infatti, che è Nevsun, società mineraria canadese che lavora in Eritrea, a pagare Atlantic Council, per migliorare l’immagine dell’Eritrea.
Questo è certamente un momento difficile per il governo etiopico che il 9 ottobre ha dichiarato lo stato d’emergenza.
Il 2 ottobre, durante una tradizionale cerimonia religiosa, in Oromia, sono morte molte persone, più di cinquanta. Tantissimi i feriti.
La stampa internazionale, finora, ne ha parlato poco. In Italia il presidente dell’Etiopia Mulatu Teshome Wirtu, durante l’incontro al Quirinale con il presidente Sergio Mattarella, ha definito “hooligan” chi ha provocato gli scontri. Mattarella si è detto certo che l’Etiopia avrebbe “fatto luce”.
In realtà la luce c’è già. È lotta aperta tra governo e oromo.
Con la polizia che spara sui manifestanti. Per quanto ancora la comunità internazionale, gli Stati Uniti, potranno fingere di non vedere?
In questo quadro, all’Etiopia, manca solo che si cerchi di far riavvicinare Stati Uniti ed Eritrea.
Per una nuova prospettiva.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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