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Eritrea, il colonialismo italiano, la sconfitta di Adua e l’indipendenza
Marilena Dolce
23/11/12
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A Cremona venerdì 16 novembre presso la Sala Puerari del Museo Civico si svolge un incontro promosso dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.
Tema, Il colonialismo italiano in Africa Orientale, dalla battaglia di Adua all’indipendenza delle colonie
Marco Baratto racconta la sconfitta italiana di Adua attraverso il libro del 1929, La Battaglia di Adua di Emilio Bellavita (1857-1933). Un saggio interessante, una testimonianza in presa diretta dell’aiutante in campo del Generale Dabormida che, dopo aver partecipato alla campagna d’Africa, rientrato in Italia, decide di narrare al cortese lettore vicende umane e militari, con ricchezza di fonti e particolari.
La storia è nota.
Premessa per la disfatta di Adua, dove le forze di Menelik, Negus d’Etiopia, legato all’Italia dal trattato di Uccialli, sconfiggono e distruggono una colonna italiana di 15 mila uomini, è la decisione del governo Crispi di scegliere una politica coloniale aggressiva per rinforzare, al suo interno, l’Italia da poco unita.
Bellavita spiega gli errori politici e militari che determinano la sconfitta. Il 29 febbraio 1896, giorno prima della battaglia, i generali di brigata, convocati da Oreste Baratieri, governatore con compiti civili e militari, decidono di muovere contro il nemico, nonostante lo stesso Baratieri sia a conoscenza delle molte difficoltà pratiche e logistiche.
Bellavita, cui il libro non ha procurato amicizie, nel capitolo Considerazioni sulla battaglia di Adua, enumera freddamente i motivi del disastro militare: deficienze di uomini, di armi, di scarpe, di denaro, anche di acqua, mancanza di carte, di apparati telegrafici, di palloni frenati, di apparecchi ottici; informatori malfidi; trascurato il riattamento delle vie di comunicazione, con conseguenti ritardi e confusione nello spostamento di truppe e carovane. Impreparazione dunque completa alla campagna che mise il Comandante in Capo nell’alternativa tra una ritirata vergognosa e una battaglia in condizioni sfavorevoli.
Il giudizio di Bellavita perde freddezza e diventa accorato quando nel Commiato scrive che i morti di Adua sono morti da valorosi e che Generali e soldati hanno bene meritato della Patria.
Ma chi sono i soldati di Adua? Nelle brigate Dabormida, Arimondi, Albertone, Ellena combattono giovani italiani cui va il grido commovente di Matilde Serao che scrive sul Mattino di Napoli (24/25 novembre 1896) un articolo dal titolo eloquente Il ritorno degli sconfitti, nel quale la scrittrice accusa il governo di averli fatti arrivare alla chetichella, spingendoli forse a pensare che sia stato inutile battersi per l’Italia.
Gli italiani, ad Adua, non sono gli unici soldati: fra indigeni e bande sono presenti quasi diecimila ascari. Recentemente l’Italia, come ricordato dal presidente della sezione Unsi (Unione Nazionale Sottufficiali Italiani) di Brescia, Graziano Taiola, ha intitolato la propria sezione alla medaglia d’oro al valor militare a Mohammed Ibrahim Farag, balucbasci della Regia Marina, simbolo di un amor patrio che il legislatore dell’Italia coloniale non aveva considerato possibile.
Su questo tema ritorna Derres Araianel suo intervento, ricordando che, come Farag, suo concittadino di Massawa, sono 150 mila gli ascari, soldato in arabo, caduti per l’Italia che meriterebbero un ricordo per la loro lealtà e fedeltà, perché sono stati una componente fondamentale degli eserciti coloniali.
Qualcosa in realtà esiste, sfuggito al silenzio calato sul secondo colonialismo italiano, quello d’epoca fascista.
A Firenze, racconta Derres, c’è uno studio dove lavora il nipote omonimo di Romano Romanelli,scultore fiorentino discepolo di Lorenzo Bartolini che, nel 1938 progetta un monumento al Soldato in Africa per Addis Abeba. Una volta conclusa l’opera, però, le vicende della guerra e la perdita delle colonie ne fermano la partenza. Più tardi, nel 1952, il governo decide di portare il monumento dedicato ai caduti d’Africa, a Siracusa, in Sicilia, dove ora si trova, in un luogo splendido, a picco sul mare.
Il calco in gesso per forgiare l’ascaro in bronzo, una delle statue della solenne scultura, è ancora nel laboratorio di Firenze e potrebbe essere portato altrove, come suggerisce Derres, in Italia o in Eritrea, per testimoniare il valore di tutti gli ascari caduti a fianco degli italiani.
L’Eritrea, Midri Geez, terra che si affaccia al mare, come si chiamava prima che l’Italia introducesse la sfumatura rossa, è nata combattendo per la propria autonomia dai ras, dagli ottomani, dagli egiziani dagli italiani e dagli africani.
In epoca recente, continua Derres, nel 1952, dopo la lunga parentesi italiana, l’Eritrea diventa protettorato britannico, federata all’Etiopia di Heilè Sellassie che ne elimina lingua, sostituendo l’amarico al tigrino, bandiara ed esercito, lasciando autonomia solo alla polizia locale.
Nel 1961 l’Etiopia annette l’Eritrea che, per difendere i propri diritti e il proprio territorio, organizza un primo nucleo di resistenza nel bassopiano, a Keren, con Idris Awate.
La lotta che durerà dal 1961 al 1993 è quella di un popolo lasciato solo, che sposa la sofferenza, resistendo prima all’Imperatore, sostenuto dagli Usa e dall’Occidente, poi a Menghistu, alleato dell’URSS e di Cuba.
L’Eritrea finalmente libera e indipendente, de facto il 24 maggio1991, de iure nel 1993 (referendum con il 99,8% di voti per l’indipendenza) comincia a lavorare per ricostruire il Paese.
Di nuovo, nel 1998, è attaccata dall’Etiopia senza motivo, con un pretesto territoriale inconsistente, il confine di Badme. Spiega Derres che, se in Africa esistono confini certi sono quelli eritrei tracciati a suo tempo dai tecnici italiani. Una commissione internazionale nel 2002 si pronuncia a favore dell’Eritrea ma l’Etiopia ignora il pronunciamento.
L’Eritrea è nuovamente isolata, anzi il nuovo corso di una stampa in accordo con l’isolamento internazionale è la denigrazione.
L’Eritrea è accusata di aiutare i fondamentalisti somali che invece, quando hanno tentato di entrare nel suo territorio sono stati individuati ed espulsi, perché l’Eritrea, da sempre contro ogni terrorismo, negli ultimi dieci anni si è impegnata per lo sviluppo del Paese. Al termine della conferenza Emanuele Bettini presenta due lettere inedite di Rodolfo Graziani spedite dal carcere di Procida nel 1946, prima che uscisse il libro, Ho difeso la Patria. Sicuramente meriterebbero uno spazio a sè, anche se il richiamo al senso del dovere, in questo caso, sembra una tristissima banalità del male.
Complimenti agli organizzatori di questa iniziativa. Anche mio nonno in quel periodo era soldato che ha servito la bandiera tricolore con fedeltà e coraggio. Non c’è nessuna piazza italiana che ha eretto una scultura di un ascaro che ricorda la loro azione, il loro coraggio e la loro lealtà. La proposta del mio connazionale Derres Araia, la trovo giusta. Complimenti caro Derres. Sei stato sempre positivo ed in prima fila nel servire il tuo paese e la tua gente ed ora ti ringrazio per la tua proposta.