In Eritrea le frontiere sono ancora chiuse come mezzo necessario per la prevenzione Covid-19.
Una misura che si scontra con le abitudini di vita e i commerci di una delle nove etnie, gli Afar.
È del 24 giugno l’ultimo annuncio del Ministero della Sanità eritreo che aggiorna sulla situazione Covid-19 e sulla necessità di mantenere la chiusura delle frontiere e limitare gli spostamenti.
Nelle scorse settimane il totale casi positivi è salito a 144.
Trentanove ora non sono più a rischio mentre i restanti 105 sono ancora in quarantena e stanno ricevendo assistenza nei centri allestiti ovunque nel Paese.
Fin dall’inizio della circolazione del virus, la decisione presa in Eritrea è stata quella di contenerne la diffusione chiudendo le frontiere via terra e via mare. Oltre a ciò è stato deciso il lockdown nei centri abitati e la chiusura dell’aeroporto.
Del resto i primi casi registrati nel paese sono arrivati dall’estero. Quindi il Ministero della Sanità e il governo hanno stabilito che nessuno, eritreo o straniero, potesse entrare se non dopo aver passato 14/21 giorni in quarantena nei centri appositamente allestiti.
Un divieto che, con il passare dei mesi, per molti è diventato duro rispettare. In queste ultime settimane sono rientrate in Eritrea dall’Etiopia, dal Sudan, da Gibuti e dallo Yemen persone positive al virus. Nonostante i passaggi via terra fossero bloccati tanti hanno ignorato il divieto. Tra loro anche gli Afar, l’etnia nomade che vive nella parte eritrea della Dancalia che ha continuato a spostarsi nei diversi Stati confinanti dove peraltro vivono altri componenti della stessa etnia.
Gli Afar in Eritrea rappresentano il 4% della popolazione. Sono abitualmente nomadi. Chi vive nell’interno del Paese si dedica alla pastorizia, chi vive sulla costa alla pesca.
La chiusura delle frontiere per l’epidemia ha bloccato i commerci con i paesi limitrofi e ha reso impossibile il loro consueto stile di vita e lavoro.
Del resto chiusura delle frontiere e limitazione degli spostamenti per evitare la diffusione del virus non sono provvedimenti presi solo in Eritrea. In tutto il mondo, vista la rapidità di diffusione per via aerea e per contatto del virus Covid-19, si sono adottate misure analoghe. In alcuni Paesi occidentali, Italia compresa, il ritardo nell’inevitabile decisione di chiudere le frontiere è costato caro in termini di vite umane.
L’Africa non è stata colpita violentemente, come temuto, dall’ondata virale. Però gli spostamenti tra Paese e Paese potrebbero innescare ciò che clima, età giovane e buon sistema immunitario di gran parte della popolazione, finora hanno evitato.
Riesce quindi difficile capire la reprimenda contro l’Eritrea per la prevenzione dell’epidemia espressa nel nuovo rapporto, che sarà presentato in questi giorni a Ginevra, da Daniela Kravetz speciale Rapporteur sui Diritti Umani.
Il suo rapporto ha molte analogie con i precedenti e, per la verità, non dedica grande attenzione alla pandemia in atto. Come in passato, anche il nuovo report non si basa sulla conoscenza diretta del Paese ma è compilato dall’estero.
Per rendersi conto della situazione in Eritrea la relatrice ha partecipato a incontri e seminari a Bruxelles, New York, Ginevra e in Norvegia. Per la stesura si è avvalsa dell’aiuto di alcuni Paesi che ringrazia, Belgio, Norvegia, Svizzera e Stati Uniti. Mentre non hanno partecipato al lavoro Etiopia, Sudan, Kenya, Uganda ed Egitto cui era stato chiesto.
Il rapporto 2020 si chiude con la reiterata richiesta di una Costituzione, l’abolizione del servizio civile e maggiori diritti politici per i cittadini.
Temi di punta dei precedenti report.
La novità invece è l’accusa per “l’emarginazione della comunità Afar”. La loro sussistenza, si legge nel rapporto, sarebbe a rischio perché non possono vivere come di consueto, commerciando spostandosi di Paese in Paese.
Per questo motivo, secondo quanto riferito al Rapporteur che ne prende atto e lo trascrive, molte comunità Afar sono adesso sfollate verso l’Etiopia dove vivono altre comunità Afar, anch’esse nomadi.
Il Rapporteur invita il governo eritreo a rispettare i diritti della comunità Afar adottando politiche di sviluppo e inclusione sociale. Pe evitare che muoiano di stenti e povertà. In quest’analisi il problema pandemia resta sullo sfondo.
Ne parla invece il 30 maggio 2020 l’organizzazione Red Sea Afar Human Rights che invia alla testata online Awate, dichiaratamente ostile al governo di Asmara, un comunicato in cui accusa l’Eritrea di fermare gli spostamenti della popolazione Afar “usando come scusa la pandemia per il Covid-19”.
Lo scopo sarebbe quello di operare una feroce pulizia etnica.
La nota del gruppo RSAHRO è corredata da una campagna social, #savedankalia lanciata dagli stessi attivisti che vivono all’estero e che hanno dato un’intervista a Radio France International. Anche in questo contesto si ripete l’accusa che in Eritrea gli Afar stiano morendo di fame e che siano perseguitati.
L’organizzazione Afar esprime un proprio punto di vista ripetuto dal report sui Diritti Umani. La domanda, per il momento senza risposta, è se siano state fatte verifiche su tale fonte acquisita e convalidata.
Tra l’altro emblema della campagna social è un’immagine struggente. In essa si vedono due persone pelle e ossa davanti a una burra, la tipica capanna Afar costruita con foglie e legno di palma dum. Questa, si legge in molti tweet, è la penosa condizione degli Afar in Eritrea. Però la fotografia è del 2008. Ed è stata scattata in Etiopia dal fotografo Nick Danziger per l’organizzazione Oxfam.
La causa in difesa degli Afar ha trovato comunque molti sostenitori.
Anche l’Italia ha raccolto il loro grido d’allarme.
Vietando spostamenti, pesca e pastorizia, l’Eritrea che tra l’altro ha pochi casi , “sotto il velo del Covid-19” uccide gli Afar, così scrive l’Avvenire ripetendo l’accusa in questione.
Nelle scorse settimane però, come si è detto, i casi di Covid-19 in Eritrea sono aumentati. E i nuovi positivi arrivano proprio dai paesi vicini. Le preoccupazioni quindi per gli spostamenti della popolazione Afar non sono campate per aria.
Sull’efficienza e, soprattutto, sulla tempestività con cui l’Oms ha diffuso in questi mesi i dati sull’epidemia e fornito i protocolli da adottare, ci sono molti dubbi. Che in Italia si potesse fare meglio, evitando le stragi in paesi come Nembro e Alzano Lombardo, è cosa ormai chiara a tutti. L’arma migliore, visto che cura per il momento non c’è, resta ovunque la prevenzione.
Che è ciò che l’Eritrea fa. Tutto il Paese è ancora chiuso. Ovunque ci sono posti letti per la quarantena. Sono state distribuite mascherine e si fanno tamponi per accertare la positività al virus.
La popolazione segue le direttive, anche se ciò comporta sacrifici. Dall’inizio emergenza la diaspora eritrea, nei diversi Paesi, ha raccolto fondi per sostenere il lavoro del Ministero della Sanità e della Task Force per prevenire la diffusione del virus.
Tutti rispettano le regole. Impegno che tocca anche agli Afar. Perché il loro vivere nomade e la loro abitudine a commerciare passando le frontiere, in questo periodo di pandemia, mette a rischio la sicurezza dell’intera popolazione eritrea, cui di fatto appartengono.
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