Eritrea e Bologna, festival o “questione”? Intervista con Claudio Mazzanti, Comune di Bologna
Bologna, sotto un sole che rendeva la città emiliana più simile alla torrida Massawa che alla fresca Asmara, capitale dell’Eritrea con miti temperature, dal 4 al 6 luglio è stata la meta di moltissimi eritrei che partecipavano al Festival Internazionale.
Erano attesi, e arriveranno, giovani, anziani, famiglie, da tutta Europa e dall’America. Una diaspora che non ha smesso di sognare un ritorno in Eritrea, costretta da un intreccio di vicende storiche e politiche, diventate personali, a vivere all’estero.
Perché Bologna?
Perché Bologna è stata, negli anni’70, centro e sostegno per i combattenti eritrei impegnati in patria nella lotta contro l’Etiopia retta dal colonnello Menghistu, ultimo colonizzatore.
Le amministrazioni comunali di sinistra, in quegli anni, sono state solidali con l’Eritrea in lotta, aiutandola.
Oggi questa fratellanza, motivo della riconoscenza eritrea, data per scontata dagli eritrei bolognesi, non è risultata così ovvia come si credeva.
Anche allora c’erano stati distinguo: Giancarlo Pajetta, intellettuale e parlamentare del PCI, esprimeva su Rinascita, dopo averlo incontrato ad Addis Abeba, ammirazione verso il “compagno” Menghistu, alleato con l’URSS e nuovo despota d’Eritrea che stava costringendo alla fuga un quarto della popolazione.
Claudio Mazzanti, consigliere comunale Pd, sabato 5 luglio, durante un’intervista sul Festival e Bologna, sulla posizione storica di Pajetta mi dirà che «era di poco peso» perché ufficialmente il PCI stava con l’Eritrea, che tutta «l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria si organizzarono per aiutare i combattenti. Fra Bologna e l’Eritrea insomma ci fu un rapporto fortissimo d’amicizia».
Oggi però il Festival d’Eritrea 2014, per il Comune è diventata una “questione”.
Sempre Mazzanti, chiarisce che fino all’anno scorso la giunta comunale partecipava ai festival eritrei bolognesi perché rappresentavano il popolo. Quest’anno la questione è diversa il problema, dice, «è esploso in modo rilevante per la posizione di Amnesty International, che molti di noi non conoscevano e poi per l’articolo molto approfondito dell’Espresso» cioè di Undercover, blog de l’Espresso che ha attaccato il Comune di Bologna che offriva spazio al Festival.
«Questa volta la festa era organizzata dalla comunità ma dietro c’era il governo, un governo accusato di violare i diritti umani» dice Mazzanti «quindi l’amministrazione comunale ha pensato di chiedere e vedere come stanno le cose. L’Ue e lo Stato italiano devono dire se l’Eritrea è un paese pericoloso per i reati che commette contro l’opposizione o se sono tutte balle».
Negli stessi giorni, rientrato da una visita ufficiale ad Asmara, il viceministro degli Affari Esteri Lapo Pistelli, Pd, affida a una nota della Farnesina la richiesta di riaprire il dialogo Italia-Eritrea. In interviste successive a Radio Città del Capo e al quotidiano cattolico l’Avvenire, sarà più esplicito, «la pace si fa con i nemici, con gli amici si va a prendere una pizza,» «Afwerki è l’unico interlocutore, tra l’altro in eccellente forma, visto quanto si legge sul suo stato di salute». E poi ancora: «non si può dialogare a colpi di report Onu».
Ovviamente il Comune di Bologna è rimasto spiazzato da questa nuova posizione italiana e Mazzanti durante l’intervista mi dice che non sta al Comune stabilire se l’Eritrea è o non è un paese che viola i diritti umani, a questo deve pensare il nostro Ministero degli Esteri.
«Bologna continuerà ad avere buonissimi rapporti con la comunità eritrea» aspettando, continua Mazzanti «che il Paese apra le porte agli ispettori Onu, per chiarire la situazione».
«Ma a pagare il prezzo di questa rigidità e del doppio binario paese/popolo sarà la gente arrivata al festival per festeggiare con Bologna?» Chiedo.
«No, non è così» risponde Mazzanti. «A fronte della richiesta eritrea di fare questa festa, sia la Prefettura, sia il Comune hanno detto di sì, però vista la situazione di cui abbiamo detto, le istituzioni, Comune, Provincia, Regione e i loro esponenti, tra cui io, abbiamo aspettato per capire, prima di partecipare».
«E per la richiesta di spazi per un Festival di Eritrea Democratica, organizzato dall’opposizione, qual è la posizione del Comune?»
«La battaglia per la democrazia è giusta» dice Mazzanti «però li ho incontrati e ho detto loro che prendevo atto di quanto dicevano, pur senza avere elementi. Oggi loro sono in Piazza Maggiore (ndr mentre in Piazza Maggiore c’è la festa, è in corso l’intervista), io non andrò, so che l’assessore Amelia Frascaroli parteciperà, il sindaco invece no. Noi aspettiamo risposte dagli uni ma anche dagli altri e le risposte al momento non le abbiamo, pur con il massimo rispetto per Amnesty International è il governo italiano che deve prendere posizione».
Amelia Frascaroli, assessore al welfare del Comune di Bologna, sarà in Piazza Maggiore, accanto ai manifestanti di Eritrea Democratica cui, dopo la conferenza stampa del 30 giugno, ha garantito appoggio e che avranno gratuitamente, a fine agosto, come deciso dal Comune, uno spazio all’interno del Festival dell’Unità, sempre al Parco Nord.
Ma al Festival d’Eritrea in corso in questi giorni, che aria si respira?
Di sicuro gioiosa, festosa, allegra, attenta e partecipe, persino durante i caldi seminari pomeridiani. Per chi osserva dall’esterno, per capire e raccontare, spira aria tranquilla, voglia di ritrovarsi, di abbracciarsi, di essere compatti.
Le persone intervistate sono fiere di esserci.
Si è scritto che c’erano solo vecchi. Come dire che imperversava l‘amarcord, non è vero, moltissimi erano giovani, le magliette azzurre PFDJ, i volontari dell’organizzazione e tantissimi altri, lì solo per divertirsi o per far contenta la mamma, perché, come mi ha detto un ragazzino milanese, seconda generazione, il festival è bello ma sabato torno a Milano, per uscire con i miei compagni di scuola. Perché anche questo è lo spirito eritreo.
Una nota in margine: chi è arrivato fin qui ha pagato viaggio, albergo, ingresso. Insomma, se non avesse voluto venire, chi glielo poteva imporre?
Quanti sono arrivati?
Più di diecimila, dice chi preparava i pasti. Certo per il numero esatto bisognerebbe chiedere agli organizzatori quanti braccialetti d’ingresso sono stati venduti ma la fonte, per alcuni, sarebbe di parte, quindi rimango sui diecimila. Certamente, a occhio, il grande piazzale Parco Nord è stato sempre affollato, giorno e notte.
Era una festa eritrea, di tutti gli eritrei che si riconoscono nella loro terra, alcuni più favorevoli al governo, altri critici, tutti orgogliosi di stare insieme.
Questa è l’unica Eritrea?
No, visto che fuori dai cancelli un’altra Eritrea e molti italiani contestavano governo e festa, accusando il regime di far morire i ragazzi costretti a scappare da una Corea del Nord africana per citare il famosissimo titolo di Jeune Afrique che di Africa e colonialismo, storicamente, se ne intende.
L’Eritrea è un Paese, dice chi lo contesta offeso dal festival, che non ha motivo per festeggiare: il servizio militare è infinito, la libertà di pensiero e parola annullata.
Perché allora così tante persone festeggiano? Nessuno dell’opposizione dà una risposta diversa dalla costrizione ricattatoria, per sua natura difficile da verificare.
L’Eritrea è un paese libero e indipendente dal 1993. Un’indipendenza conquistata con tenacia e caparbietà. Un paese piccolo, con nove etnie, diverse religioni, geograficamente posto in una zona del Corno d’Africa molto instabile, dove si giocano partite aperte e partite nascoste, svelate qualche volta, solo marginalmente, da wikileaks.
Si chiede all’Eritrea di aprire le porte, mostrare alle organizzazioni internazionali che il Paese rispetta i diritti umani. Però si finge di non sapere che l’Eritrea non è un paese in pace, anche se cerca di evitare la guerra; è un paese che ha un esercito nemico in casa, su un confine che l’Accordo di Algeri del 2001 “definitivo e vincolante” non ha saputo far rispettare.
Dov’era l’Occidente dei diritti umani quando gli abitanti di Badme, cittadina di confine presidiata ancora oggi dagli etiopi, perdevano casa, campi, lavoro, reddito? O forse queste persone valgono meno?
L’Eritrea non ha una storia facile ma le semplificazioni non portano lontano.
Il Paese prima di essere giudicato con severità deve poter recuperare una condizione autentica di pace, uscire da uno stato di allerta continua, sviluppare l’economia, senza sanzioni, di fatto, immotivate. Questo sarebbe un modo concreto di aiutare la sua gente e difenderne i diritti.
La “questione giovani” è una spina nel fianco, se ne parla con angoscia. Il passaparola e internet mettono i ragazzi in condizione di andarsene, in cerca di un avvenire migliore. I più fortunati legalmente, per studio, molti illegalmente, diventando merce di un orrendo traffico mortale. Quando ce la fanno, stremati, li vediamo arrivare in Italia a Milano-Porta Venezia, tappa veloce per poi andare altrove, accolti dal welfare materno del Nord Europa.
La situazione politica eritrea oltrepassa i propri confini, la gente vuole essere libera e indipendente, a qualunque costo, senza avere il piede di nessuno in casa propria.
La diaspora aiuta, invia rimesse, raccoglie soldi per progetti sociali, partecipa al festival di Bologna, senza ricatti, costrizioni, obblighi.
Il Festival, oltre al divertimento, ha senza dubbio raggiunto un implicito scopo politico, quello di consolidare l’unione tra eritrei, senza azzerare i problemi con panem et circenses, discutendo e confrontandosi.
Questa è l’Eritrea di tutti? Evidentemente no. Però al Festival c’era gente innamorata del proprio paese, arrivata per lavorare in cucina o dove fosse necessario, un volontariato d’altri tempi, onlus di fatto.
E di questo l’opposizione deve tenere conto, democraticamente, continuando a fare opposizione.
Marilena Dolce
@EritreaLive
E’ proprio così. L’Eriitrea è come ha descritto.
Grazie Dott. Dolce