Coronavirus quando l’informazione è qualificata
Coronovirus, quando l’informazione deve essere qualificata.
Per districarsi e capire cosa sta succedendo, anche nel caso coronavirus, è necessaria un’informazione qualificata.
Che non sempre lo è.
Il primario di anestesia e rianimazione dell’Ospedale Niguarda di Milano, Roberto Fumagalli, ha pubblicato ieri sul canale Youtube un video dove spiega proprio questo, l’importanza di un’informazione qualificata.
La situazione del coronavirus, spiega il medico, è seria. Tuttavia nel suo ospedale medici e infermieri lavorano per curare e salvare i pazienti. Anche quelli che arrivano in terapia intensiva. “Non è vero” prosegue, “che non intubiamo i pazienti anziani e che scegliamo chi curare in base all’età. La percentuale di giovani ricoverata nelle terapie intensive è bassa”.
“Vi chiedo quindi” dice il medico, “di non contribuire alla diffusione di questi messaggi e di affidarvi all’informazione qualificata”. Non alle fake news.
E il problema è proprio questo. Avere gli strumenti per sceglierla “l’informazione qualificata”. Il messaggio che arriva dal professor Fumagalli è chiaro e anche rincuorante. Niguarda sta fronteggiando l’emergenza mettendo in campo la propria struttura e ampliando quella esistente. I posti in rianimazione ora sono circa cinquanta.
Adesso, più che mai, chi lavora in ospedale con i pazienti o studiando il virus, deve scegliere con attenzione le parole. Soprattutto se decide di farsi intervistare. L’informazione per essere utile deve essere di qualità.
Ma che negli ospedali, in tempo di coronavirus, si scelga chi far vivere e chi veder morire, non è una fake news.
Qualche giorno fa, infatti, un rianimatore dell’ospedale di Bergamo, intervistato dal Corriere della Sera, ha detto proprio questo.
Ha parlato della condizione difficile del suo ospedale e del dramma di decidere a chi assegnare i pochi posti in rianimazione. Una scelta fatta tenendo presente età e condizioni cliniche del paziente. Una situazione angosciante dove chi si salva si lascia alle spalle molti sommersi.
Informazione qualificata sul coronavirus di questi tempi è stata anche quella del dott. Roberto Burioni che sul suo sito, da un mese, pubblica brevi video chiari e precisi.
Dall’inizio dell’epidemia Burioni dice cose che si sono rivelate drammaticamente vere. Questo virus, disse subito, non è come quello dell’influenza. Dobbiamo attrezzarci, cambiare stili di vita, rimanere a casa. O rischieremo di morire.
Come ha fatto a capirlo? Probabilmente leggendo gli studi scientifici su quanto stava avvenendo in Cina. Come il virus si diffondesse e il modo per contrastalo, in attesa di una cura.
Letture che, forse, la dottoressa Maria Rita Gismondo, virologa dell’Ospedale Sacco di Milano non aveva il tempo di fare.
Due settimane fa, infatti, lei ha scritto sul suo profilo facebook, riferendosi all’allarmismo coronavirus, “è una follia, ne uccide più l’influenza”. Affermazioni condivise dalla stampa nazionale e successivamente da lei cancellate.
Anche questa però è un’informazione qualificata, vista la fonte. Invece no, purtroppo è una fake news, diffusa in buona fede, cui molti hanno dato retta.
Così nelle grandi città, anche a Milano, per settimane si è continuato a fare una vita normale, di relazioni e lavoro. Come se Wuhan non esistesse o fosse un luogo troppo distante perché il virus potesse arrivare fin qua.
Perciò il sindaco di Milano Beppe Sala twitta il 27 febbraio, “Milano non si ferma”. Poco dopo, però, la situazione precipita e il decreto Conte di sabato 9 marzo blocca l’Italia. Il suo nome è “iorestoacasa”. Non più zone di diversi colori. Tutto il paese è nella stessa barca, che cerca di non affondare.
Forse però, se si fossero disinfettati i mezzi pubblici e la metropolitana. Se i negozi fossero stati chiusi subito e la gente invitata a non fare jogging nei parchi. Se bar e ristoranti fossero stati serrati, il virus sarebbe stato contrastato meglio.
Adesso abbiamo in Italia, 15.113 casi, 1.016 decessi, 1.258 guariti.
L’Oms dichiara pandemia. Nelle grandi città italiane la vita si è spenta, con tre settimane di ritardo.
Sull’informazione e la sua qualità, ancora una piccola riflessione.
L’ultimo decreto Conte chiude tutto, salvo farmacie, supermarket, benzinai ed edicole.
Edicole che non sono più i vecchi chioschi ma negozi, ad alto rischio contagio.
Qualche giorno fa Carlo Verdelli, direttore di Repubblica così si rivolgeva al governo, “chiedo che nella lista dei servizi essenziali da mantenere aperti (e da sostenere con ogni forma di agevolazione e di sostegno) vadano da subito inserite le edicole. Se non rientrassero nell’elenco, sarebbe un danno irreparabile, oltre che per i giornali, anche e soprattutto per i cittadini.
Ma se l’informzione deve essere qualificata invito al controllo dei dati sulla diffusione dei quotidiani. Nel caso di Repubblica, secondo quotidiano italiano, si stimano 186.062 copie vendute a dicembre 2019. Meno tre per cento rispetto a novembre dello stesso anno. Cinque anni fa, fonte Ads, tra carta e digitale tali copie mensili erano 319.126 mila.
È evidente che gli italiani hanno da tempo scelto un modo alternativo per informarsi. Sarà informazione qualificata la loro? Oppure il mare magnum offerto dai social? Meglio in questo momento sospendere il giudizio e chiedere a tutti di non rischiare la vita, men che meno per andare all’edicola sotto casa.
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