Con_Vivere, Carrara Festival sull’Africa, una nuova narrativa?
Domenica, con una tavola rotonda finale, si è chiusa la nona edizione del Carrara Festival Con_Vivere, (5-6-7 settembre) dedicato quest’anno all’Africa.
Innanzi tutto un elogio agli organizzatori, alla Cassa di Risparmio di Carrara e alla città, pulita, elegante, gentile, ospitale come sa esserlo una bella provincia italiana.
I lavori dell’ultimo giorno hanno coinvolto politici e giornalisti: il sottosegretario del Ministero degli Interni, Domenico Manzione e Marta Dassù, ex viceministro agli Esteri, Massimo Alberizzi un tempo inviato dall’Africa del Corriere della Sera, ora Africa ExPress, Angelo Mastrandrea, ex vicedirettore del Manifesto e Enzo Nucci, giornalista Rai.
Tema dell’impegnativa discussione “l’Africa di domani, prospettive e scenari”.
Senza dubbio il Festival, durante i tre giorni, ha cercato di avvicinare un po’ di più gli italiani a un’Africa quotidiana, diversa da quella riportata dai titoli delle prime pagine dedicate a calamità naturali o cronache tragiche. Un’Africa che, citando Kapuściński, non è un grande continente ma un insieme di 54 paesi distanti tra loro e differenti, al proprio interno, per lingue, etnie, religioni.
Un’Africa per troppo tempo raccontata in Italia solo dai missionari o dalle ong (Organizzazioni Non Governative) interessate, per lo più, al proprio sostentamento e oggi scalzate dagli emerging donors che, almeno formalmente, vogliono coinvolgere gli stati beneficiari perché siano parte attiva di progetti condivisi, non imposti.
Molti e interessanti gli eventi del Festival: conferenze, dibattiti, tavole rotonde. Però, un dubbio resta: perché, salvo due meritevoli eccezioni Igiaba Scego, scrittrice, nata a Roma da genitori somali e Jean Léonard Touadì, ex parlamentare, nato in Congo-Brazzaville, agli africani è stato riservato solo un ruolo d’intrattenimento con “percussioni, balli canti e melodie” come si legge sul programma?
Nessun relatore era africano.
Per intendersi, va benissimo ascoltare Giobbe Covatta, simpatico testimonial Amref, purché non si pensi che questo sia sufficiente per scalfire luoghi comuni e stereotipi.
La Con_Vivenza può diventare difficile quando si deve stare insieme, lavorare, studiare con chi è diverso per cultura, affetti, conoscenze, lingua, colore della pelle, non quando si sta tra simili.
Mentre scrivo, leggo un’agenzia che riporta la dichiarazione del presunto assassino di tre anziane suore, una vita dedicata alle missioni. L’uomo avrebbe ammesso di averle uccise perché il loro convento occupava la “sua” terra, un terreno un tempo della sua famiglia. Loro, straniere in Africa, non gli piacevano. Una convivenza fallita, un caso decisamente estremo, simbolo però di molte distanze.
Le platee del Festival, per quanto ho potuto vedere erano bianche e occidentali, senza dubbio motivate all’ascolto dei temi trattati, interessate alle belle mostre fotografiche, (One day in Africa, Time Lag) probabilmente reduci da viaggi in Africa per lavoro, studio, vacanza.
Persone desiderose di conoscere meglio l’Africa. Proprio per questo sarebbe stato bello coinvolgere i numerosi intellettuali africani presenti in Italia che, tra l’altro, avrebbero richiamato un pubblico più internazionale, formando una platea meno uniforme.
Nonostante questo limite, il Festival ha sottolineato l’importanza di comprendere meglio “l’Africa, un continente in movimento”, titolo della conferenza e del libro di Federico Bonaglia.
La tavola rotonda conclusiva più che indicare una via per l’Africa del futuro ha cercato di delineare la complessità dello scenario attuale.
Parlando d’immigrazione, dell’inconsistenza di Frontex, rispetto a Mare Nostrum, oggi elogiato da Papa Francesco per il suo lavoro, il sottosegretario Manzione ha detto che i siriani che scappano da una guerra o gli eritrei che fuggono da una situazione difficile, non si lasceranno fermare da nessuna legge. «Che paura può avere per le incognite di un viaggio chi teme, per sé e per la propria famiglia, di morire sotto le bombe?», chiede Manzione che ricorda i numeri dell’UNCHR (United Nations High Commissioner for Refugees, alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati) su chi emigra per la guerra o per la povertà estrema: 51 milioni di persone, su una popolazione mondiale di 7 miliardi.
«La mission di Frontex stabilita dall’Europa è stata quella di difendere la cittadella assediata e respingere l’Africa povera che ne mette in pericolo il benessere»,«perché questa» spiega Manzione «è la posizione politica della destra europea, erigere un muro che non basterà, come mostrano gli arrivi a Milano, alla Stazione Centrale». Perché «si tratta di persone che non hanno intenzione di fermarsi nel nostro paese. Non vogliono farsi riconoscere, non vogliono chiedere asilo nel primo paese di accoglienza (ndr, come imporrebbe il trattato di Dublino)».
Il motivo per cui molti non vogliono fermarsi in Italia è per raggiungere altrove i familiari. Molti africani dicono espressamente di voler andare nel Nord Europa, per ricevere assistenza, casa, lavoro. Pazienza se questo significa finire al freddo, in quartieri per emigranti, anche se non banlieu.
In questi anni in Africa la massiccia diffusione di cellulari, forma evidente dei nuovi consumi, ha risolto il vecchio problema delle linee fisse, rendendo più semplice (non meno rischioso) organizzare l’emigrazione.
Massimo Alberizzi dice che «fare previsioni sul futuro dell’Africa è impossibile» perché «gli scenari si modificano rapidamente, sorprendendo anche gli esperti. In Somalia i cambiamenti avvengono ogni sei mesi».
«Non bisogna dimenticare» prosegue «che l’economia africana è influenzata dai paesi occidentali, dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia e dalla Malesia con le sue compagnie petrolifere. L’Occidente ha sbagliato a giudicare positivamente la caduta delle vecchie dittature laiche sostituite da quelle religiose. Meglio Gheddafi di quello che c’è adesso in Libia, così in Siria o in Iraq. Meglio le vecchie dittature»
«La lotta dell’Occidente contro le dittature africana si fa dura quando non vengono date concessioni petrolifere, non per motivi etici. I giovani che in molti paesi, come in Somalia, non hanno un futuro, sono disposti a tutto pur di vivere. Anche ad arruolarsi e a far mettere il velo alle donne, che però così mangiano».
«Quanto ai migranti» continua «quelli che arrivano in Italia sono di due tipi, politici, quelli di Sudan e Somalia, economici quelli dall’Eritrea dove la lunghissima coscrizione e la mancanza di prospettive spinge i giovani verso l’Europa, soprattutto verso i paesi nordici».
Il dramma di questi ragazzi è diventare vittima di human trafficking andando verso la morte in mare o, prima ancora, nel deserto del Sinai. «Pur non avendo la controprova» dice Alberizzi voglio citare quanto riportato da molti giornali: sono stati trovati cadaveri senza organi interni, probabilmente mandati per trapianti nei paesi arabi». Come lo scorso dicembre è stato detto a Roma durante la presentazione del rapporto “Human Trafficking”.
Quella d’Eritrea è una situazione complicatissima: paese indipendente dal 1993, dopo una guerra durata trent’anni contro l’Etiopia, nel 1998 l’Eritrea è coinvolta in un nuovo scontro con l’Etiopia che si conclude sulla carta nel 2000, senza però che gli etiopi lascino i territori contestati.
Questa situazione costringe l’Eritrea a fermare il processo di ricostruzione e a vivere una guerra di carte, documenti e, ultimamente, sanzioni che non finisce sui giornali ma sfianca la gente, toglie respiro all’economia, impedisce al paese di sopravvivere e, ultima ratio, spinge i giovani alla fuga.
Un cambio di governo sarebbe una soluzione? Difficile rispondere. Molti però lo vorrebbero.
Parlando del Sud Sudan stato costituitosi nel 2011, Alberizzi dice che «oggi è nuovamente in guerra a causa del petrolio che fa gola all’Occidente perché «l’economia delle nazioni sviluppate» continua «dovrebbe avere etica nel business per non avere masse di africani che arrivano in Europa».
«Importante interrogarsi sugli scenari futuri africani perché coinvolgeranno l’Italia, paese di transito» dice Marta Dassù.
Un dato importante è l’esplosione demografica dell’Africa e il declino dell’Europa. Nel 2100, dati Unicef, un abitante del pianeta su quattro sarà africano e nel 2050 si ritiene che la popolazione africana sarà composta da un miliardo di giovani sotto i 18 anni.
Un’Africa giovane accanto a un’Europa vecchia, questo è lo scenario futuro.
«Il problema è che, anche in paesi come la Nigeria, dove il reddito pro capite è alto, sta bene solo la nuova borghesia, mentre i giovani sono poveri.
Ad agosto l’America, che ha fatto un summit con i capi di Stato africani, ha stanziato 33 miliardi di dollari per nuovi investimenti, ma di questi soldi quanto andrà alla popolazione?» chiede Marta Dassù.
L’Africa è anche in Italia e in Europa e conoscerla è compito del cronista, dice Mastrandrea.
Esempio di tale situazione è Calais, porto francese, una “Lampedusa europea” dove arrivano i migranti africani in cerca di fortuna verso un’altra Europa o verso l’Inghilterra.
Il suo racconto ricorda quanto spiegato da Giampaolo Musumeci e Andrea Di Nicola nel bel libro uscito l’anno scorso, Confessioni di un trafficante di uomini nel quale gli autori seguono, passo dopo passo, il percorso dello sporco business di uomini che non coinvolge solo gli africani perché, come dice Kabir, mediatore pachistano: «tutti vogliono venire in Italia, io aiuto le persone, realizzo sogni». E qualche volta incubi.
Il libro riporta dati delle Nazioni Unite che stimano il guadagno annuale degli smuggler, letteralmente contrabbandieri di cose, oggi trafficanti che portano i migranti dall’Africa in Europa, in 150 milioni di dollari. Lo stesso fiume di soldi che sta dietro ogni barcone che arriva a Lampedusa, Agrigento, Crotone o dietro i camion pieni di clandestini che arrivano a Bari dalla Grecia o dietro ogni gruppo di finti turisti che arriva a Malpensa.
È il secondo business più redditizio, dopo la droga, ed è meno rischioso. Se un gruppo di migranti, che ha già pagato, si perde nel deserto, pazienza…
L’organizzazione fornisce cellulari perché i giovani sequestrati, ostaggio dei trafficanti chiamino le famiglie per farsi pagare il riscatto e proseguire il viaggio. Quella descritta nel libro è una situazione che riguarda i cinesi, tuttavia il modus operandi è identico a quello riservato agli africani, come denuncia don Mussie Zerai che riceve sul suo satellitare le disperate telefonate dei giovani eritrei rapiti.
Telefonini e gps sono l’arma del traffico di uomini.
Scrive Giampaolo Musumuci che «reclutare migranti nella zona di Calais non è difficile, basta sedersi a un caffè e aspettare. Presto si vedranno arrivare gruppetti di afghani, albanesi, eritrei, somali» che, per timore di essere inviati nei centri di accoglienza evitano di stare a Calais o a Dunkerque, dove arrivano solo per l’imbarco. Nel frattempo stanno nelle zone “franche” una di queste, citata al Festival da Mastrandrea, si chiama jungle, giungla, un’altra African House, vecchia fabbrica di materassi vicino alla stazione.
Ora tutto ciò non esiste più. La città è stata ripulita, anche se ci sono ancora migranti nascosti, in attesa d’imbarco.
Vorrei concludere con la citazione fatta da Enzo Nucci che ripete quanto lo scrittore Henning Mankell fa dire al protagonista dei suoi gialli, l’ispettore Wallander, conoscitore dell’Africa:«noi sappiamo come muoiono ma non come vivono gli africani».
Questo Festival ha mostrato, ancora una volta quanto sia necessario abbandonare, come ha detto Nucci «gli approcci terzomondisti o missionari, modi vecchi di pensare l’Africa» perché, vorrei aggiungere, per Con_Vivere è necessario Con_Dividere aspettative e progetti.
Marilena Dolce
@EritreaLive
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