Asmara, Lidet, il Natale dei ricordi
DI AMAN ABRAHA, DIARIO DI UN ERITREO
Natale, la nascita di Gesù bambino a Betlemme, è la festa per eccellenza dei piccoli, il ritrovo della famiglia. Avvenimento cui la nostra società del consumo cerca oggi di far perdere ogni magica atmosfera. Si è felici perché Natale coincide con ferie, ponti, tredicesime, se si ha la fortuna di avere un lavoro. Fino all’ultimo restiamo avvolti nella frenesia, nella ricerca spasmodica dell’ennesimo regalo, del biglietto last minute destinazione casuale per sperperare la tredicesima.
Accerchiati dalle mille luci della città, chilometriche luminarie per colorare le vetrine, finti abeti addobbati all’ultima moda Troppo rumore, troppo colore tutto distoglie dalla semplice, genuina, magica atmosfera natalizia. Ricordo quando il Natale non era sinonimo di solitudine all’interno della folla, di ricerca di un sorriso in un mare d’indifferenza, di un abbraccio caloroso, dolce, forte, per arginare la gelida apatia da cui siamo circondati
Diverso era il mio Natale ad Asmara; austero ma ricco di attesa, povero di cose ma splendente per atmosfera.
Dicembre ad Asmara è un mese denso di nubi. La mattina ci si sveglia con la rugiada sulle piante dei giardini di casa e sugli alberi in strada.
Le vetrine del centro sono ornate con abeti e luci a intermittenza, qualche Babbo Natale sparso qua e là, fiocchi di cotone per ricordare la neve, presepi ingialliti, rispolverati all’ultimo. Nella via principale il Natale entrava prepotentemente nell’animo e nel cuore di qualsiasi eritreo. La Cattedrale, infatti, metteva all’esterno casse con altoparlante che emanavano dolci e celestiali melodie natalizie.
Canzoni come Jingle Bells, Tu scendi dalle stelle, Bianco Natale rallegravano il cuore dei passanti, dei ragazzini che vendevano mastikha, e shigara, delle signore alla fermata del bus. La lingua non era un problema, non serve traduttore per queste melodie. Il loro scopo era portare felicità nell’animo, smussare il malinconico ricordo di qualche mancanza, di qualcosa o qualcuno che non c’è.
Per chi come me frequentava la scuola italiana e un po’ la Cattedrale, quei giorni portavano in serbo l’eccitante partecipazione alla recita di Natale.
Un paio di volte ho fatto parte del gruppo di pastori che dovevano dormire fino all’annuncio da parte dell’Arcangelo Gabriele della Buona Novella, della nascita del Salvatore. Ricordo ancora l’imbarazzo provato quando uno degli agnelli che dovevamo custodire scappò raggiungendo la navata centrale e suscitando così l’ilarità dei presenti e un applauso spontaneo.
Nella cultura eritrea il Natale, Lidet, è preceduto da 15 giorni di digiuno. Non si mangia carne se non alla mezzanotte del giorno di festa. Era usanza alla vigilia o il giorno di Natale al mattino presto, uccidere una pecora, così ci si svegliava con il belare della pecora che per quel giorno sostituiva il canto del gallo.
Gli anziani andavano in Chiesa già alle prime luci dell’alba, poi cominciava la festa.
Il regalo classico era il vestito nuovo, da indossare con gioia, per essere ammirati. Un vestito che andava ad arricchire il modesto guardaroba e da usare solo per le festività, insomma il “vestito di Natale” da esibire e sfoggiare di fronte ad amici e conoscenti. Così i molti sogni davanti al negozio di giocattoli, quello di fronte alla Cattedrale, andavano a farsi benedire. Però forse avrebbero potuto avverarsi il Natale venturo.
Il pranzo di Natale era ricco. Si iniziava con il dulot nel piatto unico come da usanza eritrea e poi le varie pietanze, cucinate e condite a piacere.
Ma la festa era aprire il Panettone con l’uva dentro, uno spettacolo. A chi piace il fondo un po’ bruciacchiato, a chi la parte superiore con lo zucchero a velo. Il pomeriggio si andava in giro, chi allo zoo, chi ai super affollati cinema di Asmara.
Insomma, il Natale in Eritrea me lo ricordo così, semplice, genuino, pieno d’innocente gioia di vivere.
Non so se oggi sia ancora così. Non credo e, forse, tutto sommato non è una cosa che non mi interessi sapere.
Ho il privilegio di aver potuto vivere quel periodo, di aver passato lì in quell’angolo sperduto del Corno d’Africa la mia infanzia, in un paese che non ci ha lasciato niente se non indelebili ricordi.
Ecco perché mi sento in dovere di ricordare, condividere e magari raccontare a chi non ha avuto la mia stessa fortuna.
E con l’occasione un saluto e Ruhus baal Lidet.
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