Africa, questione d’immagine
Marilena Dolce
02/12/15
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È di questi giorni l’avvio di una raccolta firme online sul sito change.org dal titolo “Anche le immagini uccidono” promossa da Redani (Rete della Diaspora Africana in Italia) che chiede di opporsi all’uso di bambini africani poveri e tristi, da salvare con donazione ad hoc, soprattutto a Natale.
Sfacciate operazioni di marketing corredate di foto e video, per chiedere un aiuto che aggira, in un sol colpo, carta di Treviso sui diritti dei minori e carta di Roma sul modo di parlare non solo di migranti e rifugiati ma di “stranieri” in genere.
Sono video promossi da charity, associazioni benefiche che, pensando che il fine giustifichi il mezzo, utilizzano foto di bimbi neri, affamati e disperati, qualche volta con il viso pieno di mosche, per commuovere e ottenere soldi per la giusta causa.
Scopo della petizione “anche le immagini uccidono”, spiegano i promotori, non è accusare le ong ma ridare dignità ai bambini africani, ai loro genitori.
Certo tenere a bada il potere delle immagini è sempre più difficile. La nostra società è costruita sull’immagine, sui simboli, sulla forza delle allusioni. Quante volte, per esempio un articolo che parla di eritrei è accompagnato da immagini di persone africane ma non eritree? Quante volte un’immagine è modificata, postprodotta, perché prenda un significato differente rispetto allo scatto iniziale?
È una storia nota, già raccontata molte volte.
Dunque la petizione di Redani è corretta, però non può non essere anche una stoccata alle ong, al loro modo di lavorare e di comunicare.
Durante i primi viaggi in Africa, mi ero stupita che in Eritrea non ci fossero organizzazioni di aiuto internazionale, non solo mancavano quelle legate all’Onu, per i freddi rapporti con gli Stati Uniti, ma anche quelle europee e cattoliche.
Sulla questione la risposta della stampa internazionale è lapidaria, l’Eritrea, “Corea del Nord” africana, per citare il pluricitato titolo di Jeune Afrique (2009), ha deciso d’isolarsi chiudendo le frontiere a tutti, anche alle ong e facendo pagare ai suoi cittadini il caro prezzo di questa scelta.
All’interno del paese, però, le voci sulla cacciata degli “aiuti” sono diverse. Molti eritrei ma anche europei e italiani raccontano episodi di strafottenza da parte di funzionari onlus che vivono una vita distante da quella del paese che li ospita, cui i locali possono avvicinarsi solo a patto d’entrare nel “cerchio magico”.
Tanti gli aneddoti, da quello della signora al vertice di una ong che mandava tutti i giorni un domestico a comprare carne fresca per i suoi cani, all’incremento della prostituzione o al reclutamento di manodopera che si disputava il privilegio di lavorare per loro.
Una ong cattolica italiana mi racconta, lamentandosene, dell’impossibilità di costruire pozzi in una zona dell’Eritrea, dove sarebbero stati molto necessari, per l’ostruzionismo locale. La versione eritrea però è diversa, dicono che, con i soldi destinati alla costruzione di un pozzo, loro ne avrebbero fatti tre. Ma l’autorizzazione è negata, forse perché il “risparmio” avrebbe dovuto prendere un’altra direzione.
Del resto, pur non riferendosi all’Eritrea, paese che non ha visitato, Valentina Furlanetto nel libro L’Industria della Carità, racconta storie dense di dati e testimonianze che confermano come lo stile caritatevole occidentale cominci a infastidire molti paesi africani.
Recentemente, scrive, alcuni paesi africani come Uganda, Ruanda, Kenya e Tanzania si sono chiesti come contrastare questo fenomeno, studiando proposte di legge da presentare ai rispettivi parlamenti per arginare l’utilizzo da parte di ong locali e internazionali di materiale fotografico e audiovisivo che lede la dignità dei propri cittadini o dei profughi che hanno trovato asilo nel loro paese.
Nella prefazione al libro, Alex Zanotelli, a lungo direttore di Nigrizia, scrive: “le grandi istituzioni, come la galassia Onu, spendono l’80% di fondi per finanziare la struttura dell’Onu stessa. Funzionari e dipendenti mantengono uno stile di vita nel sud del mondo semplicemente scandaloso. In Africa ci sono immensi campi di rifugiati dove la gente vive in situazioni drammatiche mentre vicino vivono funzionari e cooperanti con tutti i confort occidentali”. E per le ong, conclude padre Zanotelli, la situazione non è diversa.
A Redani che chiede di firmare una petizione contro lo sfruttamento della pietas provocata dalle immagini di bambini africani, qualcuno potrebbe obiettare che non c’è nulla d’illecito perché quelle immagini sono accompagnate da liberatoria, cioè dal consenso dei genitori o di chi per essi ha potuto darlo.
E probabilmente è vero. Anche se l’uso di foto di quel genere rimane una scelta moralmente discutibile. Si utilizzerebbero foto di bambini bianchi, sofferenti in un letto d’ospedale, per chiedere soldi per la ricerca che studia come curarne il male? No, sarebbe un boomerang, ma se la sofferenza è quella di bambini neri, allora ci si commuove, senza indignazione.
Chi dona lo fa in buona fede, non si chiede, dopo aver empaticamente aderito alla causa e messo mano al portafoglio, che fine faranno i suoi soldi, quanti andranno al bambino testimonial, quanti al paese africano e quanti a coprire i costi dell’organizzazione della carità.
Forse sarebbe più semplice, penso all’Eritrea, aiutare direttamente le mamme di quei bambini, persone dignitose che magari lavorano in cooperative di donne, tessendo, cucendo, riciclando, come nel caso della plastica, per fare belle borse per la spesa, “plastic zembil”.
Però se mancano brand, logo, sponsor e, soprattutto, soldi per organizzare una campagna pubblicitaria con annesso evento, la bontà non diventa business. E poi una carità senza bambini e senza lacrime, non convince. Se si aggiunge, come nel caso dell’Eritrea, un paese africano diffidente verso onlus e ong, allora la frittata è fatta, niente “aiuti”.
La beneficenza “tira” se sponsorizzata, se aiutata da testimonial famosi, a loro volta ben lieti d’accarezzare il bimbo nero e povero, per aver un ritorno d’immagine, dicono gli addetti ai lavori, altissimo.
Solidarietà e marketing viaggiano in coppia, nutrendosi l’una degli obiettivi dell’altro.
Sarebbe bello poter dire che il giornalismo che scrive le Carte, prenda le distanze da tutto ciò, ma non è così. “Un cronista che parte per l’Africa al seguito di un’associazione umanitaria, sia essa un ente o un’ong, non è diverso dal giornalista embedded che parte con l’esercito: vede e racconta ciò che l’associazione vuole che veda e racconti”, scrive la Furlanetto.
Così il luogo comune di un’Africa bisognosa di aiuto organizzato fuori dal paese, si rafforza nutrendosi di scatti strappacuore.
Alcuni anni fa contro l’aiuto distante da partnership e buone cooperazioni, un collettivo norvegese ha lanciato Radi-Aid, un video clip sulla falsa riga della campagna We Are The World, dove però è l’Africa che aiuta, mandando termosifoni in Norvegia.
Forse bisognerebbe ripetere più spesso che il razzismo è insidioso e che non basta abolire dal vocabolario la parola “negro” per mettersi al sicuro.
Per concludere, per accompagnare quest’articolo a favore della petizione “anche le immagini uccidono”, ho scelto una fotografia scattata qualche tempo fa in Eritrea, a Massawa, dove un gruppetto di ragazzini si stava allenando a calcio. Li ho ripresi mentre giocavano allegri, senza maglie, nel campetto improvvisato bordo mare. Per la foto-ricordo però, chi l’aveva si è cambiato e ha indossato la maglia, con l’ orgoglio di squadra non si scherza.
Queste sono le immagini dell’Africa che dovrebbero commuovere.
Marilena Dolce
@EritreaLive
Sicuramente fanno male le difusioni delle immagini dei bambini in cattivo stato. Si puo anche chiedere aiuto senza mostrare le foto. Fa male anche quando si tratta di pubblicità degli alimenti per animali, es. gatti grossi. Fa male doppiamente. In tutto è meglio trasmettere con moderazione.
Grazie Dott. Dolce