29/03/2024
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Antonio Politano, Asmara, Cinema Roma, un simbolo della città

©Antonio Politano, Asmara, Cinema Roma, un simbolo della città

In questi giorni social network e giornali italiani stanno divulgando una petizione pubblicata dalla pagina online change.org e promossa da Vittorio Longhi, giornalista e Mussie Zerai sacerdote, nella quale si chiede una firma contro lo stanziamento di fondi europei, anche italiani, per aiutare l’Eritrea, il suo sviluppo, soldi che, spiegano, non porterebbero la democrazia, anzi rinforzerebbero lo stato attuale.

Ma che tipo di democrazia vorrebbe l’Occidente per l’Africa?

Probabilmente l’unica che conosce, quella che ha reso famosa Atene nel quinto secolo, tempi migliori per la Grecia, quella della Francia del 1789, Direttorio escluso, quella dell’abolizione della schiavitù in America.

Non quella che già esiste, diretta, fatta di riunioni di villaggio cui si partecipa seduti sotto un grande albero di sicomoro, né quella che ha garantito a molti (anche alle donne) un pezzo di terra coltivabile e neppure quella che mantiene la promessa di una società senza classi, considerando che a quest’utopia l’Occidente non crede più.

Lo scorso aprile, durante il Festival del Giornalismo di Perugia, al termine di un panel dedicato all’Africa, Robert Kabushenga, avvocato di  Kampala, ha detto, riferendosi al rapporto Africa-Cina: «noi siamo sottosviluppati per colpa dell’Europa, i cinesi hanno portato in Africa infrastrutture che hanno migliorato la nostra vita. L’Uganda ha appena firmato con la Cina un progetto di circa 8 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova ferrovia, questo migliorerà o peggiorerà la nostra vita? Sono convinto che la migliorerà».

L’Occidente quando si tratta d’investimenti cinesi è diffidente, perché viene scalzato e perché i cinesi, quanto a democrazia, non guardano tanto per il sottile.

Rimane un fatto: è solo con infrastrutture e investimenti per lo sviluppo che un paese può crescere, creare occupazione, migliorare la vita delle persone, evitare che emigrino.
Queste sono le condizioni per una società più giusta.

L’Eritrea non ha mai allungato la mano per chiedere aiuti, anzi è sempre stata diffidente, inimicandosi molti paesi quando ha cacciato ong che di “aiuti” campavano.

Fin dal 1998, pochi anni dopo l’indipendenza (1993) e alla vigilia del nuovo scontro con l’Etiopia (1998-2000) che ne cambierà la storia, mantenendola da allora in bilico tra guerra e pace, il presidente Isaias Afwerki, durante un’intervista al Los Angeles Times, ha detto di non credere negli aiuti perché non fanno crescere i paesi, anzi li mantengono in uno stato di bisogno.

Una linea politica che diventa self-reliance.

Ciò che si critica della “carità” dei donors è la completa estraneità ai bisogni reali dei paesi.
Si dubita dell’aiuto di chi sceglie di piantare pomodori senza sapere che dal fiume usciranno gli ippopotami a mangiarli, come ironizza Ernesto Sirolli, bollando di arroganza l’Occidente che non chiede.

Ma l’Eritrea post indipendenza non è rimasta immobile, aspettando che qualcun altro risolvesse i suoi problemi, ha fatto molto con le proprie mani, con le proprie risorse, grazie anche al vituperato servizio nazionale.

Nel paese, dopo trent’anni di lotta (1961-1991) non esistevano più ponti, strade, ferrovia, industrie, capannoni, negozi, case, villaggi, campi da coltivare, alberi e neppure animali. L’aridità delle zone desertiche, non più temperata dal verde dell’altopiano, rischiava d’ingoiare in un vortice di sabbia agricoltura e allevamento, le maggiori risorse.

Gli eritrei perciò si sono messi al lavoro, bonificando campi minati, piantando alberi, costruendo micro dighe, irrigando campi. Oggi l’acqua piovana dell’altopiano, un’acqua preziosa che scende da agosto a ottobre, non si perde in tanti rivoli ma aiuta l’agricoltura e l’allevamento.
Ogni micro diga, dati UNDP, sostenta 1200 famiglie, circa 6000 persone. E il lavoro continua.

Basta andare in Eritrea per vederlo.

Certo non è ancora abbastanza e sicuramente il tenore di vita della gente non può competere con il livello occidentale, motivo per cui i giovani se ne vanno, abbandonando però un paese che non avrebbero mai avuto se i loro genitori non avessero lottato caparbiamente uniti, vedendo amici e parenti perdere la vita in luoghi di cui l’Occidente non ha mai conosciuto neppure il nome.

Ora l’Unione Europea ha stabilito di aiutare l’Eritrea, di dare trecento milioni di euro per il suo sviluppo, soprattutto perché continui a lavorare per quello sviluppo che ha permesso anche di raggiungere importanti Obiettivi del Millennio, (MDG) per esempio in campo sanitario.

La petizione invece chiede all’Unione Europea e all’Italia di non concedere soldi all’Eritrea perché servirebbero solo a far rimanere gli eritrei nella “prigione a cielo aperto” che è casa loro.

Gli eritrei però vorrebbero rimanerci a casa, per costruire lì il proprio futuro.

Come ha detto un’ambasciata occidentale al Danish Immigration Service che ha steso un rapporto sull’Eritrea lo scorso ottobre 2014, il 99,9% dei giovani che abbandona il paese lo fa per motivi economici, non politici.
Un’osservazione analoga la sta facendo in questi giorni il ministro dell’immigrazione inglese che ha dichiarato che la maggior parte di chi arriva in Europa via mare è migrante economico.

Negli ultimi anni l’Eritrea ha avuto pochissimi aiuti, niente in confronto alla vicina Etiopia.
Questo è uno dei motivi per cui il servizio nazionale ha continuato a essere l’asse portante della sua economia.

Chi avrebbe costruito le dighe o le micro dighe necessarie per trattenere l’acqua, irrigare i campi, coltivarli, venderne i frutti al mercato? Certamente molte imprese, anche italiane ma a un costo che il paese non avrebbe potuto permettersi, così l’hanno fatto e lo stanno facendo i giovani eritrei.

Questa non è schiavitù, però è lavoro pagato poco, non da uno stato corrotto ma da uno stato povero.

Una fonte che lavora in Eritrea mi dice che gli operai sono bravi, però la produttività è bassa. I giovani spesso scantonano saltando, non metaforicamente, la staccionata per rientrare in caserma piuttosto che lavorare in cantiere, tanto la paga è uguale.  Per intendersi, un gruppo di operai che lavora alla costruzione di una diga svolge meglio il proprio compito quando riceve un incentivo economico.

Questioni semplici da capire, più difficili da risolvere.

Ecco perché in questo momento i soldi europei sarebbero un aiuto importante per lo sviluppo economico del paese, un aiuto che eviterebbe l’abbandono dei molti che hanno studiato a spese dello stato, matite e fogli compresi.

Perché impedire questo? Perché voler mantenere le condizioni che fanno emigrare i ragazzi consegnandoli al traffico di uomini e al rischio di un viaggio che nessun occidentale affronterebbe?

Lo sviluppo di un paese, anche dal punto di vista politico, è legato allo sviluppo economico, perciò aiutandolo si aiuterebbe la società a migliorarsi.

A meno che non si preferisca imporre un presidente scelto all’estero, ovviamente nell’interesse del popolo e della democrazia.

La petizione però si colorerebbe di giallo.

Scrive in una “lettera aperta” inviata ai giornali Daniel Sillas un eritreo della comunità italiana, riferendosi a Mussie Zerai: «Secondo me, ti faranno vincere il Premio Nobel, (ndr, per la pace) perché l’Occidente sta creando il prossimo presidente eritreo».

Nell’ultimo rapporto della Commissione d’Inchiesta sui Diritti Umani l’Eritrea è accusata di compiere crimini contro l’umanità.
È un luogo, scrivono i relatori che non hanno visto il paese, da cui si fugge non per motivi economici ma per motivi politici.

Le testimonianze che lo affermano, raccolte in paesi terzi, soprattutto nei campi profughi, sono moltissime, più di cinquecento.

Tutte raccontano l’inferno di una vita dannata. Una vita diversa da quella della diaspora, una vita più povera e faticosa di quella dei coetanei europei, tuttavia le loro dichiarazioni non potrebbero essere che così.
Un richiedente asilo, infatti, per avere diritto al “rifugio”, deve provenire da un paese in guerra oppure da un paese che ha subìto catastrofi naturali, o ancora, essere perseguitato per motivi politici.

Quindi gli eritrei che richiedono asilo affermano di essere perseguitati, almeno fino al momento in cui ottengono lo status di rifugiato per poter poi rientrare in patria, magari per le vacanze, senza timbri sul passaporto, come hanno sempre fatto gli emigranti.

Sull’immigrazione i garbugli europei sono tantissimi; il costo dei salvataggi in mare, l’efficienza di Mare Nostrum, il low cost di Frontex, il Trattato di Dublino e le quote per ciascun paese, le stazioni ferroviarie di alcune città italiane trasformate in un’esposizione di uomini, tra plexiglas e giardinetti, i centri di accoglienza inefficaci e inefficienti, per non parlare dell’ultima vergogna, Calais e Ventimiglia.

Anche la questione numeri è spinosa, quanti eritrei arrivano in Europa?
Ogni fonte ha la sua stima, ma soprattutto, sono sempre eritrei? Possibile che non emigri nessun etiope su una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti? Neppure dalle zone più povere?
Neppure chi appartiene alle etnie meno integrate?

Possibile che si faccia finta di non sapere che conviene dichiararsi eritrei per ricevere asilo?  E se lo fanno somali e sudanesi è credibile che non lo facciano gli etiopici, soprattutto quelli dell’altopiano, similissimi agli eritrei?

Sono problemi che l’Occidente lascia alle riviste di geopolitica, interessandosene solo quando rischiano di disturbare la politica interna.

Lo scorso novembre 2014 a Roma il “processo di Khartum”, ha messo in agenda il problema dei migranti, dialogando con i paesi da cui la maggior parte di loro arriva.
Scopo del dialogo era innanzitutto stroncare la «più macabra e terribile agenzia di viaggi del nostro tempo e della storia» come ha definito il business del traffico di persone Angelino Alfano, ministro dell’interno.

È stato detto che questi incontri sono serviti per fare scaricabarile, che l’Europa si sarebbe messa la coscienza a posto con un dialogo, preludio al peggior silenzio.

Poco prima del “processo di Khartum” l’Italia stava preparando una proposta diversa per chiedere all’Europa di aprire nuovi campi profughi in Etiopia, un modo per salvare giovani e giovanissimi eritrei che lì avrebbero potuto studiare, imparare un lavoro, prepararsi alla vita. In realtà studio e formazione gli eritrei l’hanno anche a casa loro, quello che manca è un lavoro meglio pagato che difficilmente troverebbero in un campo, riserva per i trafficanti di uomini.

Tra l’altro, ricorda un diplomatico eritreo, creare campi profughi in Etiopia, dopo il 2002, era stata una scelta politica dell’allora  primo ministro Meles Zenawi che diceva che per vincere l’Eritrea non servivano guerre, era sufficiente costruire campi sul confine, in questo modo l’Etiopia avrebbe dissanguato l’Eritrea, portandole via la sua stessa gente.

Quella gente che forse, grazie alla mano tesa dell’aiuto europeo, potrà ricominciare a sperare di vivere e lavorare a casa propria.

Marilena Dolce
@EritreaLive