24/04/2024
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Una vita tra Eritrea e Italia, la storia di Enzo Mazzola, autobiografia di una famiglia italo-eritrea

La vita di Enzo Mazzola tra Asmara, luogo di nascita e Roma, paese d’approdo, è raccolta nel bel libro,Mamma Demmechesc, autobiografia di una famiglia italo eritrea”, cura e postfazione di Angelica Alemanno, Poets and Sailors Editore.

Un racconto personale ma anche un pezzo di storia coloniale poco nota, tradotto ora in inglese da Daniela Travaglini, supervisione di Gyneth Sick, disponibile su Amazon.

Ne parlo con l’autore che ripercorre i momenti felici trascorsi ad Asmara, nonostante le disuguaglianze sociali del tempo. 

Vincenzo, detto Enzo, classe 1939, qualche anno fa decide di mettere nero su bianco la propria vita e dedicarla al ricordo delle sue amatissime donne, la madre Demmechesc e la moglie, Adriana.

I Mazzola sono una grande famiglia, otto figli, il primo Neraio nato da padre eritreo, mentre gli altri sette sono figli di Salvatore, nati dal 1938 al 1948.

È il 1949 l’anno cruciale, quello dell’abbandono del padre che lascia Asmara per tornare in Sicilia. Un abbondono che segna Enzo, che allora aveva dieci anni, e che ne cambia radicalmente la vita. Di questo padre nato a Palermo nel 1907, nell’introduzione Enzo scrive che ha fatto scelte coraggiose, come decidere di partire per l’Africa Orientale, ma anche vili, “perché ci ha lasciati per non tornare mai più?”. Una domanda che diventa un’affermazione.

La storia di Salvatore è quella di un giovane uomo che dalla Sicilia, in quegli anni una delle regioni con più emigranti, parte per l’Eritrea. Giunto ad Asmara, mi racconta Enzo, conosce e si innamora di Demmechesc, giovane donna arrivata in città da Ewanet, paesino dell’Accheleguzai, con un bimbo piccolo, Neraio, il cui nome significa lo vedremo. Donna forte aveva deciso di lasciare un marito che la trattava male. Non si sa con esattezza né la sua data di nascita né quella del bambino.

Forse lei aveva vent’anni quando arriva ad Asmara. A quei tempi in Eritrea, come del resto nelle campagne italiane, l’anagrafe era un di più, una complicazione burocratica ritenuta inutile. Per comodità il giorno trascritto era quasi sempre quello del primo del mese, per lo più gennaio. Era invece compito della Chiesa Ortodossa tenere il conto dei giorni dalla nascita perché il battesimo avvenisse entro i primi quaranta.

Sia Demmechesc che Salvatore abitano nelle stanze prese in affitto da due sorelle eritree benestanti.

È così che tra loro sboccia l’amore. Alberto, il primo dei fratelli Mazzola, nasce nel 1938, poi nel 1939, il primo maggio, arriva Vincenzo cui il papà dà il nome del nonno. Nel 1940 nasce Giovanni, terzogenito che porta il nome della nonna, nel 1942 Paolo e poi, nel 1944, nella nuova casa vicino al Caravanserraglio, in una zona creata dagli italiani per gli italiani, Sandro.

Era un’epoca in cui, come scrive Enzo, ad Asmara vivevano ancora molti italiani, circa la metà dell’intera popolazione.

“Nel libro scrivo di noi e di mia madre, non di lui”, dice Enzo, riferendosi al padre. Nell’autobiografia storia e sentimenti si mischiano. Da un lato gli affetti, l’amore, la famiglia, dall’altro la società, il colonialismo italiano e inglese, le divisioni tra bianchi e neri, sudditi e cittadini, italiani e “meticci”. Infine l’occupazione etiopica del Derg e la fuga di italiani ed eritrei.

Nel 1941, dopo la sconfitta di Keren contro gli inglesi, l’Italia perde la colonia eritrea. Negli anni seguenti tuttavia molti funzionari italiani continuano a lavorare per l’amministrazione britannica che si insedia senza modificare la struttura sociale e burocratica della vecchia colonia.

Così Salvatore, ingegnere del genio civile, lavora per gli inglesi, anche se non gli piacciono perché “era fascista”, dice Enzo. In quel periodo, nel 1946, la famiglia si trasferisce in una casa ad “Amba Galliano, un quartiere alla periferia della città, costruito dagli inglesi: tutte baracche militari per famiglie numerose e noi eravamo già tanti”, spiega. Infatti quell’anno nasce anche Lidia.

Da Amba Galliano si andava in centro con un pulmino “Salvati”. Un giorno Enzo, che l’aveva preso insieme alla mamma, era corso “per occupare il posto, però mamma una volta salita rimase in piedi in fondo al pullman” perché, “essendo eritrea era quello il suo posto, in piedi. Rimasi vicino a lei, mi guardai attorno e solo allora notai che tutti i passeggeri eritrei rimanevano in piedi come lei, come noi, anche se c’erano posti a sedere”.

E le differenze continuano anche a scuola. Enzo e i due fratelli più grandi vanno in una scuola privata. Solo in un secondo tempo i meticci non riconosciuti potranno accedere alla scuola pubblica.

Mentre la famiglia cresce, i Mazzola traslocano ancora. Con un camion Isotta Fraschini carico di masserizie si spostano in una nuova casa. Il quartiere però non è europeo, si chiama Edaga Arbì, che significa mercato del venerdì ed è in una zona popolare, con case basse e strade di terra battuta. Enzo non perdonerà mai al padre di averli portati nel ghetto dell’Hamasien. Non gli perdona di aver rimarcato la differenza tra loro, eritrei, e lui, italiano. In realtà però il padre abiterà sempre con loro, diversamente da altri padri italiani che risiedevano in case distanti dalla famiglia eritrea. Lui stava insieme a loro e al mattino, per portarlo in ufficio, arrivava la macchina con l’autista. Forse un compromesso tra privilegi e necessità di mantenere un basso profilo.

Così i Mazzola abitano un ampio appartamento all’ultimo piano del cinema Hamasien, sopra la grande sala cinematografica con una platea di circa milleduecento posti e un bel palcoscenico per gli spettacoli teatrali.

Asmara, l’edificio ancora esistente, dell’ex cinema Hamasien ©EritreaLive

Negli anni Quaranta, in Eritrea, ci sono molte sale cinematografiche, alcune attrezzate anche per le rappresentazioni teatrali. Le nove sale di Asmara sono riservate ai bianchi e hanno nomi altisonanti: Augustus, Impero, Odeon, Excelsior, Dante, Santa Cecilia. Solo una era per gli eritrei, il cinema Hamasien, dove li porta a vivere Salvatore. Sembra un “Cinema Paradiso” d’oltremare, ma per Enzo è solo la conferma della segregazione.

Come quando, accompagnando il padre in centro, non aveva potuto scendere dalla macchina perché non era autorizzato a incontrare i bianchi. O come quando tornava da scuola con il suo amico che, un po’ imbarazzato, gli chiedeva di non stargli vicino quando svoltavano verso casa sua, perché i genitori italiani non volevano che si frequentassero. Insomma, ricorda Enzo, se anche tra ragazzi si era amici, noi “meticci”, come gli eritrei, sia a scuola sia nei banchi della chiesa, dovevamo stare distanti dai bianchi. Il nostro posto era nelle file in fondo.

Uno dei motivi per cui Salvatore Mazzola sceglie di abitare nell’appartamento dell’Hamasien è il suo interesse per il cinematografo. “Per il papà era il posto ideale. La prima cosa che fece fu quella di completare il proiettore Pipion”, dice Enzo. Nel 1937, disegnatore presso l’Ufficio Tecnico del Commissariato dell’Hamasien, Salvatore inventa un nuovo proiettore, con scorrimento continuo della pellicola, che sarà perfezionato e brevettato nel 1945.

Poi nella vita di Enzo c’è la storia del cognome. I Mazzola non erano gli unici figli di padre italiano, con il problema del cognome. Tra i “meticci” più famosi ci sono i Pollera e i Longhi. Proprio Alberto Pollera racconta della sua difficoltà a regolarizzare e riconoscere i sei figli avuti in tempi diversi da due donne eritree. Anzi ne farà una battaglia politica, senza però scalfire la scelta vessatoria contro i “meticci”. I suoi saranno riconosciuti ma molti altri dovranno prendere il nome materno, ulteriore stigma per una condizione già difficile.

Ai Mazzola il cognome paterno arriva quando il padre è già partito. Prima saranno “Mazzili, per poi correggere la storpiatura con Mazzola.

“Gli inglesi, come gli italiani, osteggiavano le unioni tra bianchi e donne di colore, per via dell’ideologia dominante e delle leggi razziali”, dice Enzo.

Durante il colonialismo italiano la città di Asmara era divisa in zone, quelle per eritrei e quelle per i bianchi nelle quali gli eritrei potevano lavorare ma non abitare. “Tutte le vie principali e secondarie, i ponti, le piazze, portavano nomi di regioni italiane o di illustri personaggi, scienziati e militari. Questo era uno dei segni distintivi dell’orgoglio fascista. La parallela di Via Abruzzo era il famoso Corso del Re. Esiste ancora oggi il grande mercato coperto, un mercato per generi alimentari e uno per il pesce. Ricordo l’unica Moschea, grandissima, al centro di Asmara, a circa duecento metri da dove abitavamo. Ricordo tanti particolari di quando avevo sei o sette anni, quando vivevamo al centro della città”.

I Mazzola conducono una vita tranquilla fino a quando non arriva il momento del “rimpatrio” del padre, “parola di cui non sapevamo il significato”, dice Enzo. “Ricordo che non voleva che lo vedessimo ma pian piano aveva cominciato a riempire bauli con pelli, avorio, caffè…si era messo d’accordo per la dogana. Macchina e moto invece le aveva vendute”. Poi arriva il giorno della partenza. Dall’Hamasien fino alla stazione ferroviaria ci sono circa due chilometri che tutti i figli grandi fanno insieme alla mamma, mentre i piccoli, Sandro, Lidia e Francesco, che ha un anno appena, restano a casa. In quell’occasione, prima di salire sul treno, il papà disse a Neraio che sarebbe stato responsabile per tutti i suoi fratelli. Sapeva che non sarebbe più tornato, che i suoi figli non avrebbero più potuto contare su un padre. “Quello stesso giorno del luglio 1949”, scrive Enzo, “centinaia di figli meticci come noi salutarono, senza alcun sospetto, il proprio padre per l’ultima volta”.

Da quel momento la famiglia di Enzo deve cavarsela da sé. Ognuno dei figli più grandi, oltre a studiare, cerca piccoli lavoretti per guadagnare qualcosa. La mamma invece va a servizio, “lavava i panni per una signora che la trattava male”. Enzo a casa faceva l’injera, il pane tipico”. “A volte”, aggiunge, “arrivano lettere del papà nelle quali dice che non può tornare perché ha perso il passaporto… ma la mamma aveva capito”.

In realtà Salvatore era rientrato a Palermo per sposare una cugina e formare un’altra famiglia. Nonostante l’abbandono, grazie alla forza della mamma, tutti i fratelli Mazzola crescono sereni.

Giovanni diventa un eccellente sarto, Enzo lavora prima ad Asmara poi all’estero. Guadagna bene e si sposa con Adriana, il suo amore della porta accanto, anche lei figlia di padre italiano e mamma eritrea. Hanno tre figlie e una bella casa, Villa Adriana. Nel frattempo però l’Eritrea è occupata dalla giunta etiopica di Menghistu Hailè Mariam. Così Enzo e Adriana decidono di partire per raggiungere i parenti in Italia.

Adriana, nata nel 1942, è figlia di un calabrese che lascia moglie e tre figli in Italia e, nel 1938, arriva ad Asmara. Qui farà il tassista e l’autotrasportatore. “All’epoca, quando un italiano aveva la compagna di colore, cioè eritrea, preferiva tenere la famiglia nella zona del ghetto”, scrive Enzo. Così i due ragazzi si trovano ad abitare vicini, all’Hamasien. “Riguardo ai nostri padri italiani, non ci siamo mai soffermati troppo sul desiderio di rintracciarli; io e Adriana stavamo bene anche senza di loro”.

Però Adriana l’indirizzo di quel padre che l’aveva amata ma che aveva dovuto tornare in Italia per motivi di salute l’aveva conservato. Per più di vent’anni aveva tenuto il biglietto ormai ingiallito di Vincenzo Biancospino, Via Riano, 8 Roma.

E così, una volta arrivati a Roma, Enzo e Adriana lo incontrano. Lui era “presidente dei tassì”, un uomo conosciuto nella zona. In Italia non sapevano della sua famiglia eritrea. Però i ricordi, mi dice Enzo, li aveva tenuti, “nascosti in una scatola di scarpe”. Così, mentre Enzo riparte per l’estero per lavoro, la sua famiglia si stabilisce a Roma, dove affitta una bella casa, compra la lavatrice, arreda le stanze. Del resto Enzo guadagna bene e può permettersi di pagare il canone, le spese e far studiare le figlie, che vivono serenamente con la mamma.

Adriana si rappacifica con il padre che morirà poco dopo il loro arrivo. Per Enzo invece sarà più complicato scrivere la parola fine sulla storia della famiglia italiana. Scoprono che il padre, sepolto al cimitero di Palermo, aveva sette fratelli, cinque maschi in America e due femmine in Italia. Una loro sorella, Ada, riceve dalla zia la foto in cui si vedono i più grandi Mazzola con il padre. È quella scattata poco prima della partenza. Lei però non vuole ripercorre quelle vicende rimosse. Così, ancora una volta, le strade dei Mazzola si separano.

La storia della famiglia, dopo la partenza del padre, ruota intorno alla mamma che, per i figli, sarà sempre un saldo punto di riferimento.

Per questo per lei è un’immensa gioia ricevere la notizia che Francesco, il più piccolo, nato ad Asmara nel 1948, insegna, per un certo periodo, proprio all’Università di Palermo. Gli disse, in tigrino: “cosa posso chiedere di più? Tuo padre venne in Eritrea per insegnare ai miei compaesani e tu, dopo cinquant’anni, torni nel paese di tuo padre per insegnare ai suoi compaesani…”.

Belle parole per chiudere la storia che Enzo, prima ancora di scriverla, si è sempre raccontato.